Giovanni Reale: Platone e Aristotele, fra metafisica e teologia di Francesco Fronterotta Il 15 ottobre 2014 è morto uno dei più insigni storici italiani della filosofia, Giovanni Reale. Nel contributo che qui pubblichiamo il lettore potrà trovare una ricostruzione del suo itinerario interpretativo insieme a una sua valutazione complessiva. Sarebbe difficile sintetizzare in poche battute il ruolo ricoperto da Giovanni Reale con la sua attività di insegnamento universitario e di ricerca nell’ambito degli studi sul pensiero antico, ma anche con il suo infaticabile impegno di editore, traduttore, commentatore di opere antiche e moderne, di instancabile promotore e protagonista del dibattito critico e filosofico internazionale. Come è noto, e a titolo di schematica segnalazione, Reale si è occupato del pensiero presocratico (ricordo solo le traduzioni commentate dei frammenti di Parmenide, del 1991, e di Melisso, del 1970, ma anche della raccolta dei frammenti dei presocratici curata da Diels e Kranz, del 2006), di Platone (di cui ha curato la traduzione dell’intero corpus e a cui ha dedicato l’influente volume, di cui si dirà più oltre, Per una nuova interpretazione di Platone, giunto nel 1991 alla sua stesura definitiva), di Aristotele (particolarmente delle Metafisica, di cui ha suggerito un’interpretazione d’insieme nel volume Il concetto di filosofia prima e l’unità della Metafisica di Aristotele, del 1961, e prodotto una traduzione con monumentale commento in tre volumi, giunta a definitiva sistemazione nel 1993), ma anche di filosofia ellenistica e del neoplatonismo. Ben noto per i suoi manuali di Storia della filosofia antica (in cinque volumi, pubblicati fra il 1975 e il 1980) e di Storia della filosofia greca e romana (in dieci volumi, completata nel 2004), nelle collane da lui dirette, presso l’editore Vita e Pensiero prima, quindi presso Bompiani, Reale ha incoraggiato e sostenuto la traduzione italiana di importanti studi critici dedicati al pensiero antico, come pure numerose edizioni e commenti dei grandi classici della filosofia occidentale. Negli ultimi anni della sua attività, Reale ha anche pubblicato alcuni saggi di ampio respiro, nei quali ha tentato di porre in luce i tratti peculiari dell’eredità della riflessione classica nella costruzione della mentalità e della cultura del mondo moderno e contemporaneo (mi riferisco in particolare ai volumi: Saggezza antica, del 1996, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, del 1997, e Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, del 1999). Nelle brevi note che seguono mi limiterò a indicare alcuni aspetti dei contributi offerti da Reale allo studio della Metafisica di Aristotele e, più in generale, all’interpretazione del pensiero di Platone, segnalandone eventualmente le implicazioni problematiche. Fin dal volume del 1961 sopra citato, Reale ha difeso la tesi che vede nella Metafisica aristotelica un’opera caratterizzata da una forte continuità tematica e concettuale, in base alla considerazione che sarebbe possibile unificare la scienza di cui Aristotele si occupa, denominata di volta in volta “sapienza”, “filosofia prima” o “scienza cercata”. La molteplicità semantica che la caratterizza, e che Reale intende a ricondurre a unità, deriva dal fatto che essa si trova talora presentata come la scienza delle cause o dei principi primi (nei libri I e II della Metafisica); oppure come la scienza che studia l’ente in quanto l’ente, vale a dire l’ente preso per sé, senza ulteriori qualificazioni e congiuntamente a tutte le sue proprietà e attributi (particolarmente nei libri IV e VI della Metafisica); ancora, come la scienza della sostanza, ossia dell’essere nel suo significato primo (nel libro VII della Metafisica); infine, come la scienza della sostanza sovrasensibile, cioè della sostanza priva di materia, che è la più elevata nella scala degli esseri (nel libro XII della Metafisica). Ora, Reale ha tentato di mostrare che l’indagine sulle cause prime non può che condurre a individuare il principio di tutte le cose, che deve a sua volta coincidere con l’essere preso per sé e nel suo significato più elevato, dunque con la sostanza, che, nella sua forma più alta, cioè in quanto sostanza immateriale, consiste, secondo il libro XII della Metafisica, nel primo motore immobile,
nell’atto puro del pensiero di sé che è possesso esclusivo e privilegiato della divinità. Per questa via Reale rientra nella peculiare linea di ricerca, già vivace nell’antichità, che definisce l’ambito della filosofia prima nella Metafisica, come una “teologia” e tende a far coincidere tout court, nella riflessione di Aristotele, “metafisica” e “teologia”, come scienza che riguarda in modo esclusivo quella sostanza, o quell’insieme di sostanze, sovrasensibile, immobile ed eterna, che, per i suoi tratti di puro pensiero di sé in atto, andrebbe considerata come equivalente alla divinità. Una simile tesi troverebbe fra l’altro un appoggio significativo nel 1 cap. del libro VI dell’opera, in cui Aristotele qualifica la filosofia prima, tra le scienze teoretiche, come theologiké, cioè appunto “teologica”. Mi limiterò a segnalare a questo proposito che il registro “teologico” è normalmente introdotto da Aristotele, nella Metafisica, per alludere a quei “proto-pensatori”, come gli antichi poeti, che si sono espressi in forma soltanto mitologica e piuttosto confusa intorno alla realtà naturale e alla sua genesi; mentre i non numerosi riferimenti ai tratti “teologici” della filosofia prima, del resto mai concepita espressamente come “teologia”, bensì al più come “teologica”, cioè che attiene in qualche misura e in qualche senso alla dimensione del divino, possono forse essere spiegati ricorrendo all’ambito concettuale e culturale diffuso di una concezione del divino che Aristotele pare introdurre piuttosto come “paradigma” della perfezione e della supremazia dell’oggetto della filosofia prima che non per suggerire un’identificazione di quest’ultimo con un dio o perfino con Dio. D’altro canto, si può pure osservare che il tentativo operato da Reale di giungere a una piena identificazione delle diverse linee di indagine perseguite da Aristotele nella Metafisica va incontro a non poche difficoltà. Per non citare che la più immediata di esse, occorrerà rilevare come la concezione della “sapienza” come scienza delle cause pare rimanere fondamentalmente irriducibile a qualunque unificazione “ontologica” o tantomeno “teologica”, se è vero che essa persegue il fine di individuare le cause prime nelle quattro serie causali che Aristotele distingue, almeno una delle quali, la causa materiale, non si lascia certamente identificare con la sostanza né, a maggior ragione, con il primo motore immobile, che è appunto una sostanza sovrasensibile, anzi la prima di esse. Si comprenderà come l’interpretazione di Reale non sia immune dal rischio di cadere in una lettura anacronistica della Metafisica aristotelica, che prese certo piede nell’antichità e che ha autorevoli sostenitori nella modernità, che, per un verso, pare sopravvalutare un carattere tutto sommato non predominante, e in ultima analisi ambiguo, della “scienza cercata” – quello teologico – e, per altro verso, sembra limitare in modo eccessivo o perfino soffocare la pluralità delle linee di indagine che Aristotele le riconosce nella sua opera. Per quanto riguarda i suoi studi su Platone, Reale è stato fra i più vigorosi e attivi esponenti della cosiddetta scuola di Tubinga-Milano, la cui principale ipotesi esegetica consiste nell’ammissione che sia esistito un insegnamento orale di Platone diffuso all’interno dell’Accademia ed escluso dai dialoghi scritti, i cui contenuti, radicalmente differenti da quelli dei dialoghi, si lascerebbero ricostruire in base ad alcune testimonianze innanzitutto aristoteliche e farebbero emergere una dottrina dei “principi” fondamentali e primi di tutta la realtà, l’Uno e la Diade indefinita, dai quali deriverebbero, in successione, le realtà ideali (forme e numeri), la serie dei numeri e infine il mondo sensibile. Questa posizione sarebbe motivata, da un lato, dalla svalutazione della scrittura a favore dell’oralità dell’attività filosofica, che sarebbe attestata in alcuni passi platonici, e, dall’altro, dall’esigenza di giungere a una ricostruzione della struttura sistematica del pensiero platonico che certo non traspare dai dialoghi scritti. Le linee lungo le quali si articola l’immagine di Platone difesa dalla scuola di Tubinga e dai suoi principali esponenti, H. Krämer, K. Gaiser e, più recentemente, Th. Szlezák, mirano essenzialmente a tre obiettivi: innanzitutto, quello di comprendere, nel suo complesso, il “sistema” filosofico di Platone al di là della visione frammentaria e provvisoria dei singoli dialoghi; in seguito, quello di cogliere l’autentico significato degli stessi dialoghi che risultano, da questa lettura, “inverati”, ossia superati nella loro parzialità e compresi nell’effettivo significato che a essi Platone attribuiva; infine, quello di valutare la filosofia platonica, il suo
“sistema”, da un punto di vista teoretico che ne consente il confronto con i grandi sistemi di pensiero della tradizione occidentale. Ora, Reale ha condotto alle sue estreme conseguenze una simile interpretazione, accogliendone pienamente i presupposti e radicalizzandone però ulteriormente le conclusioni. Ne è buon esempio la questione del demiurgo, il mitico costruttore del mondo secondo il Timeo, che Reale esamina, sulla base delle dottrine orali, in un'ottica completamente diversa da quella assunta dalla maggioranza dei commentatori. Egli sostiene in particolare che, lungi dall'essere una metafora mitica tutto sommato isolata nella riflessione fisico-teologica del Timeo, la figura del demiurgo occupa una posizione centrale nella filosofia platonica, niente affatto circoscrivibile ai dialoghi più tardi. A essa infatti dovrebbero essere ricondotte tanto “l'intelligenza ordinatrice” che nel Fedone è associata al concetto anassagoreo del nous, l'intelletto che dispone tutte le cose e nel quale risiede la ragione ultima della razionalità del reale, quanto l'“artefice dei sensi”, ordinatore del cielo e dei corpi celesti, cui si fa riferimento nella Repubblica (507c5-8 e 530a3-b4). Secondo Reale, la figura del demiurgo si lega intimamente alla problematica del Bene e alla teoria dei principi: il demiurgo, infatti, si distinguerebbe dal Bene in quanto tale, assumendo piuttosto il ruolo di intelligenza formatrice non impersonale, un dio buono che esplica il Bene e lo realizza, esercitando la propria azione ordinatrice e formatrice su una materia che gli si oppone, caratterizzata dalla molteplicità e dal male. Come si vede, è facile riconoscere l'analogia con l'interazione reciproca dei due principi primi, l'Uno e la Diade, dei quali però Reale pare interessato a sottolineare l'aspetto teologicoreligioso (o, al più, metafisico-religioso) piuttosto che, come ci si aspetterebbe, quello ontologicometafisico. Di qui si giunge alla conclusione che l'attività del demiurgo si determina come una sorta di “semi-creazionismo” che, pur non determinandosi come una creazione ex nihilo, conferisce tuttavia esistenza a tutte le cose secondo strutture originarie, quelle dei principi. Una simile concezione è, a parere di Reale, la più alta forma di monoteismo che i greci poterono raggiungere, non lontana, nelle sue linee generali, dalla teologia cristiana. Questa posizione, agli occhi di chi scrive, risulta davvero problematica nei suoi esiti. Se è infatti difficilmente negabile che Platone abbia tenuto, se non vere e proprie lezioni, almeno discussioni orali all’interno dell’Accademia su argomenti che potevano rientrare o meno nelle sue opere scritte; se è evidente che egli si è occupato di teorie matematiche, come risulta chiaro dalla lettura di dialoghi tardi, quali il Filebo o il Timeo, nei quali si assiste al tentativo di spiegare la realtà del mondo in base a principi aritmetici o geometrici; e se è plausibile che i suoi discepoli accademici, fra cui lo stesso Aristotele, si siano verosimilmente sforzati di ricondurre a sistema organico queste riflessioni, in parte orali, in parte scritte, per presentarle senza soluzione di continuità con il complesso della sua filosofia e specialmente con il nucleo di essa, con la teoria ontologica delle idee – ebbene, concesso tanto, risulta invece fortemente speculativo, e tutto sommato poco probabile, sulla base dell'evidenza testuale, che queste dottrine fossero dallo stesso Platone strettamente connesse all’insieme del suo pensiero, rappresentandone intenzionalmente l’“inveramento”; che fossero volutamente e per principio affidate all’oralità; che, infine, costituissero il “sistema” filosofico di Platone che non risulta dai dialoghi. L’aspirazione tutta teoretica a imprigionare il “platonismo” in un corpus chiuso e ben delineato, al fine di collocarlo nell’alveo della (o di una) tradizione metafisica classica, se non piuttosto teologico-scolastica, dell’occidente, manifesta insomma i suoi tratti fortemente aporetici e finisce senza dubbio per pagare un prezzo molto alto, che è quello di disperdere completamente i caratteri più propri del pensiero di Platone e della tradizione filosofica che da esso discende, la cui varietà e ricchezza derivano precisamente dalla molteplicità di interessi, approcci, svolgimenti tematici, che rimangono del tutto irriducibili alla forma e allo spirito del “sistema”.
Francesco Fronterotta è Professore associato di Storia della filosofia antica presso la “Sapienza” – Università di Roma. Su Platone ha pubblicato, tra l’altro, Methexis. La teoria platonica delle idee e la partecipazione delle cose empiriche. Dai dialoghi giovanili al Parmenide, Scuola Normale Superiore – Pubblicazioni della Classe di Lettere e Filosofia, Pisa 2001.