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Capitolo 1 IL DIABETE MELLITO Il diabete mellito (DM) è definito come un disordine cronico del metabolismo dei carboidrati, dei lipidi e delle protein...

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IL DIABETE MELLITO A cura di Felice Citriniti e Daniela Musca Ospedale “Pugliese” di Catanzaro SOC di Pediatria

A tutti i bambini affetti da Diabete e alle loro famiglie

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Indice Introduzione Capitolo 1 Il Diabete Mellito

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1.1 Classificazione

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1.2 Epidemiologia

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Capitolo 2 Diabete Mellito tipo 1

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2.1 Eziologia del DM1

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2.2 Patogenesi del DM1

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2.3 Istologia

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2.4 Markers immunologici

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Capitolo 3 Diabete Mellito di tipo 2

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3.1 Eziologia del DM2

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3.2 Patogenesi del DM2

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Capitolo 4 Segni e sintomi del Diabete Mellito

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4.1 Diagnosi

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4.2 Emoglobina glicata

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4.3 Complicanze del Diabete Mellito

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Capitolo 5 Terapia del diabete Mellito

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5.1 Follow-Up del paziente diabetico

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Capitolo 6 L’assistenza infermieristica al bambino con diabete

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6.1 La Chetoacidosi

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6.2 Linee guida italiane

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6.3 Responsabilità infermieristiche nella gestione della chetoacidosi 51 Capitolo 7 L’insulina

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7.1 Terapia insulinica intensiva continua con microinfusore

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Capitolo 8 L’alimentazione

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Capitolo 9 L’educazione/Formazione

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9.1 I campi scuola

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Capitolo 1 IL DIABETE MELLITO

Il diabete mellito (DM) è definito come un disordine cronico del metabolismo dei carboidrati, dei lipidi e delle proteine (Robbins, 2000), che conduce ad un’elevazione della concentrazione di glucosio nel sangue (iperglicemia), dovuta ad una deficienza nella secrezione o nell’azione insulinica (Nelson D., 2002) o in entrambe. I primi accenni su questa malattia sono stati ritrovati su un papiro egizio, ma furono i greci a descriverne per primi i dettagli, infatti il termine “diabete” deriva dal verbo greco “diabaineim” che significa “attraversare” (Bernoville & Beck-Peccoz, 1999), alludendo al fluire dell’acqua poiché il sintomo più appariscente della malattia è l’eccessiva produzione di urina. Il suffisso “mellito” deriva invece dal latino “mel” (miele, dolce) ed è stato aggiunto in epoca molto più recente per indicare il sapore dolciastro del sangue e delle urine dei pazienti diabetici, caratteristica peraltro conosciuta già dagli antichi egizi, greci e indiani (Ahmed, 2002). Il glucosio è la principale fonte di energia dell’organismo perché presiede al metabolismo all’interno delle singole cellule e, nel caso delle cellule del sistema nervoso, rappresenta l’unica fonte di energia in

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quanto i neuroni non sono in grado di metabolizzare i lipidi. È un carboidrato monosaccaridico (un aldoesoso) derivante in gran parte dalla scissione dei carboidrati complessi introdotti tramite la dieta, anche se una piccola quantità viene prodotta all’interno delle cellule dal metabolismo delle proteine e dei grassi. Inoltre, questo zucchero circola in forma libera nel sangue, dove viene mantenuto in un ambito ristretto di valori grazie all’azione di ormoni quali l’insulina, il glucagone, l’adrenalina, l’ormone della crescita, ecc. In particolare l’insulina, una proteina di piccole dimensioni secreta dalle cellule β del pancreas endocrino, viene rilasciata in seguito ad un aumento della concentrazione ematica del glucosio e, legandosi al recettore dell’insulina presente sulla membrana cellulare, innesca una serie di reazioni biologiche che portano a un aumento della permeabilità della stessa nei confronti del glucosio, che migra dal torrente ematico al citosol. Questo processo coinvolge circa l’80% delle cellule dell’organismo (soprattutto quelle del tessuto muscolare e adiposo), ma non avviene per la maggior parte delle cellule cerebrali, in quanto i neuroni sono permeabili al glucosio senza richiedere l’intervento dell’insulina. Come conseguenza dell’accelerata rimozione del glucosio dal sangue, la glicemia tende a scendere sotto i valori normali rallentando il rilascio di insulina dal pancreas.

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Quando il glucosio che è entrato nella cellula è in eccesso e non può essere utilizzato dal metabolismo cellulare immediatamente, l’insulina ne favorisce la conservazione in glicogeno, un polimero di subunità di glucosio con frequenti ramificazioni, ottenuto dalla glicogeno sintesi che ha luogo principalmente nel fegato e nel muscolo scheletrico. Quando la quantità di glucosio che entra nelle cellule epatiche è maggiore di quella che può essere immagazzinata come glicogeno, l’insulina promuove nel fegato la conversione del glucosio in eccesso in acidi grassi, i quali successivamente, sotto forma di trigliceridi legati a lipoproteine a bassa densità, vengono trasportati al tessuto adiposo e immagazzinati come grassi di deposito (Tab. 1.1). Oltre che sul metabolismo dei glucidi e dei grassi, l’insulina agisce anche sul metabolismo delle proteine. Infatti, questo ormone promuove il trasporto attivo di molti amminoacidi dall’esterno all’interno della cellula, favorendo la sintesi delle proteine, e contemporaneamente impedisce il catabolismo proteico, riducendo la liberazione degli aminoacidi dalla cellula (Guyton A., 2002).

Tab. 1.1 - Effetto dell’insulina sulla concentrazione di glucosio nel sangue: assunzione di glucosio da parte della cellula e sua conversione in glicogeno e triacilgliceroli. (Nelson D., 2002)

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Effetto metabolico ↑ Assunzione di glucosio (muscolo) ↑ Assunzione di glucosio (fegato) ↑ Sintesi del glicogeno (muscolo, fegato) ↓ Demolizione del glicogeno (muscolo, fegato) ↑ Glicolisi, produzione di acetil-CoA (fegato, muscolo) ↑ Sintesi degli acidi grassi (fegato) ↑ Sintesi di triacilgliceroli (tessuto adiposo)

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Enzima bersaglio ↑ Trasportatore del glucosio ↑ Glucochinasi ↑ Glicogeno sintasi ↓ Glicogeno fosforilasi ↑ Fosfofruttochinasi-1 ↑ Complesso piruvato deidrogenasi ↑ Acetil-CoA carbossilasi ↑ Lipoproteina lipasi

CLASSIFICAZIONE

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Poiché il diabete mellito comprende un gruppo di disturbi metabolici accomunati dalla presenza di una persistente instabilità della glicemia, nel corso dei decenni queste condizioni patologiche sono state classificate secondo criteri differenti. Nel 1979 è stata proposta una classificazione basta sul trattamento delle varie forme di diabete e pertanto si distingueva il diabete mellito tipo 1 insulino-dipendente (IDDM, Insulin-Dependent Diabetes Mellitus) e il diabete mellito tipo 2 non-insulino dipendente (NIDDM, Non-insulindependent Diabetes Mellitus). Nel 1997, a seguito dei progressi nella comprensione dell’eziologia e della patogenesi del diabete, l’Associazione Diabetica Americana (ADA) ha rivisitato questa classificazione ed ha deciso di eliminare i termini insulino-dipendente e non insulino dipendente e i relativi acronimi (IDDM e NIDDM) in quanto, in una classificazione basata sul tipo di terapia, forniscono un quadro contraddittorio dal momento che anche il diabete tipo 2 (indicato in precedenza come non insulino dipendente) può richiedere un trattamento con insulina. Vengono invece mantenuti i termini diabete mellito di tipo 1 e di tipo 2, realizzando così una classificazione basata sull’eziologia. La Società italiana di Diabetologia (SID) ha deciso di allinearsi al criterio suggerito dall’ADA e dall’OMS e pertanto attualmente il diabete

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si divide in: tipo 1, tipo 2, altri tipi di diabete e diabete gestazionale (American Diabetes Association, 2010). Il diabete mellito tipo 1 si suddivide, a sua volta, in diabete mellito immunomediato (DM tipo 1A) e diabete mellito idiopatico (DM tipo 1B). Il primo è causato dalla distruzione delle cellule β pancreatiche ad opera di un processo innescato da autoanticorpi, mentre il DM idiopatico è una forma rara ad eziologia sconosciuta, che colpisce soprattutto i giovani afrioamericani e asiatici (Urakami T., 2002), e che è caratterizzato da una ridotta riserva insulinica, ma residua risposta ai test di sensibilità all’insulina. Gli individui affetti da DM tipo 1B mancano dei markers immunologici indicativi di un processo autoimmune destruente delle cellule β. Il diabete mellito tipo 2 può essere, invece, suddiviso in tipo IIA, che è la forma più comune e che colpisce i soggetti obesi, e tipo IIB, che colpsce i soggetti normopeso. La categoria “altri tipi di diabete” comprende una grande varietà di disordini metabolici, e in particolare: • il diabete dovuto a difetti genetici delle cellule β, come il MODY (Maturity Onset of Diabetes of the Young), una forma di diabete tipo 2 ha un esordio giovanile; • il diabete dovuto a difetti genetici nell’azione insulinica; • il diabete secondario a malattie del pancreas esocrino (fibrosi cistica, ecc.);

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• il diabete indotto da farmaci (glucocorticoidi, ormoni tiroidei, fenitoina, ecc.); • il diabete causato da infezioni (rosolia congenita, citomegalovirus B, ecc.); • il diabete secondario a endocrinopatie (Sindrome di Cushing, acromegalia, feocromocitoma, ecc.); • il diabete associato a sindromi genetiche (Sindrome di Down, Sindrome di Turner, Sindrome di Klinefelter, corea di Huntington, ecc.) • e, infine, forme rare di diabete immunomediato (Sindrome “dell’uomo rigido”, ecc.). Una ridotta tolleranza glucidica si può sviluppare ed essere riconosciuta per la prima volta durante la gravidanza: in questo caso si parla di diabete mellito gestazionale (DMG). La maggior parte delle donne recupera la normale tolleranza glucidica dopo il parto, ma conserva un rischio sostanziale (dal 30 al 60%) di sviluppare il diabete successivamente (Harrison, 2002).

1.2 EPIDEMIOLOGIA

La patologia diabetica rappresenta uno dei maggiori problemi sanitari dei paesi economicamente evoluti e mostra una chiara tendenza a

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un aumento sia dell’incidenza sia della prevalenza. Questo dato ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a parlare di una vera e propria “epidemia” di diabete che, tuttavia, è destinata a peggiorare in quanto si prevede un fortissimo aumento della prevalenza soprattutto negli USA, nel Sud-Est Asiatico e in Medio Oriente e nel 2030 si stimano più di 380 milioni di soggetti diabetici nel mondo (Maiese, 2008). La percentuale di persone affette da diabete mellito viene stimata intorno al 5% della popolazione mondiale, di cui circa il 10% è colpita da diabete mellito tipo 1 e il rimanente 90% è affetta da diabete mellito tipo 2. Le altre forme di diabete sono meno comunemente riscontrate nella pratica clinica. Per quanto concerne il DM1, una dettagliata revisione della letteratura (Karvonem M., 1993) evidenzia ampie variazioni geografiche sia a livello intercontinentale sia a livello intracontinentale. I tassi di incidenza più bassi si rilevano in Asia (in Giappone in particolare), mentre i tassi di incidenza più elevati si riscontrano in Europa, dove sono presenti notevoli variazioni geografiche: l’incidenza massima è osservata in Finlandia (33 nuovi casi su 100000 per anno) (Montagna M.T., 2004), mentre quella più bassa si rileva in Grecia (4.6/100000). In Italia il diabete mellito di tipo 1 rappresenta il 3-6% di tutti i casi di diabete. La prevalenza del DM1 risulta essere tra lo 0.4 e l’1 per mille e

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l’incidenza è compresa tra i 6 e i 10 casi per 100000 per anno nella fascia d’età da 0 a 14 anni, mentre è stimata in 6.72 casi per 100000 per anno nella fascia di età da 15 a 29 anni. Fa assoluta eccezione la Sardegna, che ha un’incidenza di diabete giovanile tra le più alte del mondo, pari a 34 nuovi casi per 100000 per anno nella fascia d’età tra 0 e 14 anni. Questo fenomeno è probabilmente dovuto a una predisposizione al DM1 legata al peculiare assetto genetico della popolazione sarda, che è appunto geneticamente distinta dal tutte le altre popolazioni europee, compresa la popolazione italiana. In Calabria, la “Rete Diabetologica Calabrese” ha recentemente pubblicato uno studio epidemiologico in cui si evidenzia un’incidenza di circa 18 casi/100000 da 0 – 14 anni. Questo dato pone la Calabria al 2° posto in Italia per l’incidenza del DMT1 (Atti Congresso Nazionale SIEDP 2009) Il DM1 ha un picco di incidenza in età comprese tra i 5 e i 15 anni, successivamente si ha una drastica riduzione del rischio, ma mai completamente, così la malattia può manifestarsi anche in età adulta. La tendenza del DM1 in Europa è destinata ad aumentare, infatti, secondo un documento pubblicato online dalla rivista britannica The Lancet, l’incidenza del DM1 nei bambini di età inferiore ai 5 anni raddoppierà entro il 2020, mentre i casi sotto i 15 anni aumenteranno del 70%.

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Il diabete mellito tipo 2, come accennato, è molto più diffuso del DM1 e la sua prevalenza è in continua crescita per l’aumento dell’obesità e della sedentarietà: entro il 2010 si attende una triplicazione a livello mondiale dei casi di DM2 rispetto al 1994. Inizialmente è asintomatico per cui la prevalenza è stimata intorno al 3-4%, mentre indagini mirate forniscono percentuali sensibilmente più elevate, del 6-11%. L’incidenza del DM2 è stata stimata nello studio svolto a Brunico, uno dei pochi studi di popolazione condotti in Europa; il tasso/1000 anni-persona è risultato pari a 7,6 nei soggetti di età compresa fra 40 e 79 anni. Il 5-10% dei pazienti inizialmente definiti come diabetici tipo 2 è in realtà affetto dal LADA, una forma di diabete autoimmune a lenta evoluzione verso l’insulino-dipendenza.

Capitolo 2 DIABETE MELLITO TIPO 1

Il diabete mellito di tipo 1 (DM1) è uno stato di deficit assoluto o relativo di insulina che conduce a un’elevazione cronica della glicemia, provocato dalla distruzione delle cellule β delle isole pancreatiche. Ne consegue che, vista la condizione di insulinopenia, il paziente affetto da DM1 dipende dalla somministrazione di insulina per la sua

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sopravvivenza e senza terapia sostitutiva sviluppa gravi complicanze metaboliche acute, quali la chetoacidosi e il coma (Robbins, 2000). In genere il DM1 insorge e si manifesta nell’infanzia o nell’adolescente e per tali motivi in passato era definito anche diabete giovanile, ma in alcuni casi la malattia può manifestarsi anche nell’adulto.

2.1 EZIOLOGIA DEL DM1

Il diabete mellito di tipo 1 è il risultato dell’azione sinergica di fattori genetici, ambientali e immunologici (Burgio G.R., 1997) (Harrison, 2002). Per quanto concerne i fattori genetici, sono stati identificati circa 20 loci genetici potenzialmente associati al DM1 (Vyse T.J., 1996) e pertanto, affinché si sviluppi la malattia, è richiesta l’ereditarietà di un numero di geni sufficiente a conferire la suscettibilità ad essa. Il principale gene

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correlato al rischio di diabete è localizzato nella regione HLA (Human Leucocyte Antigen, detto anche sistema di istocompatibilità), sul braccio corto del cromosoma 6. Gli antigeni del sistema HLA sono costituiti da molecole glicoproteiche presenti sulla superficie cellulare. Vi sono due classi di antigeni HLA: nella prima classe rientrano, divisi in tre classi (A, B e C), gli antigeni presenti su tutte le cellule nucleate, mentre gli antigeni di seconda classe (HLA-D) hanno una distribuzione più limitata. In particolare le proteine di II classe si ritrovano sui macrofagi, sui linfociti B e T helper, sui monociti e sulle cellule epiteliali, e se ne distinguono tre serie maggiori (DP, DR e DQ). Le molecole MHC di classe II presentano l’antigene alle cellule T helper e quindi sono coinvolte nell’innesco della risposta immunitaria. La capacità delle molecole MHC di classe II di presentare l’antigene dipende dalla composizione aminoacidica dei loro siti di presentazione dell’antigene, quindi le sostituzioni aminoacidi possono influenzare la specificità della risposta immunitaria, alterando l’affinità di legame degli antigeni per le molecole di classe II. Il gene dell'HLA-DQ costituisce circa il 50% del rischio genetico di sviluppare il diabete. Inoltre, circa il 90% dei soggetti di razza caucasica con il DM1 possiede l'allele HLA-DR3 o DR4, rispetto ad una frequenza nei soggetti normali di circa il 40%; inoltre il 40-50% dei soggetti con la

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malattia è doppio eterozigote DR3-DR4, a fronte del 5% della popolazione sana. Sebbene il locus associato allo HLA di classe II (detto anche IDDM1) è probabilmente il sito cromosomico più importante nel determinare la predisposizione genetica al diabete di tipo 1, esistono anche altri loci dei quali si può considerare certo il coinvolgimento nel DM1 in quanto l’associazione è stata confermata da studi familiari. Si tratta dei loci IDDM2 (Pugliese, 1997), localizzato sul cromosoma 11 e contenente il gene dell’insulina; IDDM4, IDDM5 (che contiene il gene SUMO4) e IDDM8 (Wang CY, 2006) (De-Fang L., 1996). Bisogna ancora ricordare il locus IDDM12, il quale è localizzato all’interno del gene CTLA-4 (cytotoxic T lymphocyte associated-4) (Aribi, 2008). Tale gene svolge un ruolo importante nella regolazione della risposta immunitaria in quanto è coinvolto nel processo di apoptosi dei linfociti T. L’associazione di questa regione cromosomica con il DM1 è stata rivelata da uno studio condotto su 46 famiglie italiane con multipli membri diabetici (Nisticò L., 1996). Esistono anche geni che conferiscono una protezione contro lo sviluppo di questa malattia. Per esempio, l’aplotipo DQA1*0102, DQB1*0602 è presente nel 20% della popolazione degli USA, mentre è estremamente raro negli individui affetti da DM tipo 1A (<1%) (Harrison, 2002).

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Numerosi dati epidemiologici suggeriscono che la componente genetica, benché fondamentale nello sviluppo del diabete di tipo 1, non è da sola sufficiente a determinare l’insorgenza della malattia. È, quindi, sempre più verosimile l’ipotesi che l’ambiente possa svolgere un ruolo importante nell’eziologia del DM1, almeno modulando in senso positivo e negativo l’espressione di fattori genetici predisponenti. I fattori ambientali presi in considerazione sono in primo luogo gli agenti infettivi, quindi gli agenti tossici e le abitudini alimentari (tab. 1.2).

Tabella 1.2 Fattori ambientali potenzialmente implicati nell’eziopatogenesi del diabete di tipo 1. Fattori ambientali Virus

Enterovirus, Herpesvirus, Rubivirus, Retrovirus

Batteri

Micobatteri

Agenti tossici

Glossano, streptozocina, Vacor, pentamidina Latte vaccino, sostanze diabetogene nella soya e

Sostanze alimentari

nel frumento

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Tra gli agenti infettivi, un ruolo particolare nell’eziologia del DM1 è stato attribuito agli Enterovirus (Richer MJ, 2009), che sono virus a RNA appartenenti alla famiglia delle Picornaviridae e comprendenti i Polivirus, i Coxsackievirus (A e B) e gli Echovirus. Essi sono trasmessi prevalentemente per via oro-fecale e respiratoria, penetrano attraverso la mucosa dell’apparato digerente, si moltiplicano negli organi linfatici della faringe e dell’intestino e quindi raggiungono per via ematica vari organi bersaglio, tra cui il sistema nervoso, il fegato, il pancreas e il cuore. Un altro evento patogenetico di natura infettiva è quello della rosolia congenita: risulta infatti che il 20% dei soggetti che hanno contratto la rosolia durante la vita intrauterina sviluppa il diabete nell’arco di circa 10 anni e la malattia compare prevalentemente negli individui geneticamente predisposti (Menser M.A., 1978). Tra le numerose tossine chimiche che possono produrre un danno alle β cellule si ricordano l’alossana, la streptozoticina, il Vacor (un rodenticida diabetogeno) e la pentamidina (farmaco usato nella terapia delle parassitosi), ma si tratta di situazioni non comuni nella pratica clinica. Anche alcune sostanze alimentari si sono dimostrate diabetogene, in particolare la precoce introduzione del latte vaccino nella dieta (nei primi tre mesi) (Gerstein, 1994) e la dieta a base di cereali, probabilmente a causa di sostanze presenti nel frumento e nella soya, mentre

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l’alimentazione con idrolizzati di caseina e con altre fonti di aminoacidi ha un effetto protettivo.

2.2 PATOGENESI DEL DM1 Gli individui con suscettibilità genetica hanno una normale massa di cellule β alla nascita, ma iniziano a perdere le cellule β in seguito a un processo autoimmune innescato da uno stimolo infettivo o ambientale, che produce anticorpi diretti contro le cellule pancreatiche, provocandone la totale distruzione. Quindi la massa di cellule β incomincia a ridursi e la secrezione di insulina si altera progressivamente, anche se la tolleranza glucidica è conservata. La velocità di distruzione delle cellule β varia ampiamente tra gli individui, poiché alcuni casi progrediscono rapidamente verso il diabete clinico mentre altri evolvono più lentamente. La forma a progressione rapida si osserva comunemente nei bambini, mentre la forma che insorge

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lentamente si presenta negli adulti e viene riferita come diabete autoimmune latente dell’adulto (Late Autoimmune Diabetes in Adults, LADA). Le manifestazioni cliniche non si evidenziano fino a che la maggioranza delle cellule β (circa l’80%) non viene distrutta. A questo punto residuano ancora delle cellule β funzionanti, ma sono in numero insufficiente per mantenere la tolleranza glucidica. Gli eventi che innescano il passaggio dalla ridotta tolleranza glucidica al diabete franco sono spesso associati a un aumento del fabbisogno insulinico, come accade durante la pubertà o nel corso di infezioni. Dopo l’iniziale presentazione clinica del DM di tipo 1A può instaurarsi una fase di “luna di miele” durante la quale il controllo glicemico viene raggiunto con dosi modeste di insulina o , raramente, persino senza terapia sostitutiva. Tuttavia questa fase fugace, che sarebbe dovuta all’iperproduzione compensatoria di insulina da parte delle β cellule residue e che si può osservare nei primi 1-2 anni dall’insorgenza del diabete, si esaurisce quando tutte le cellule β sono state distrutte dal processo autoimmune e l’individuo diventa completamente carente di insulina (Fig.1.1) (Harrison, 2002).

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Fig. 1.1 - Illustrazione schematica dello sviluppo cronologico del diabete mellito di tipo 1 in funzione della massa di cellule β. 2.3 ISTOLOGIA

Il quadro istologico è quello di un’insulite (Burgio G.R., 1997): quando si ammalano le isole pancreatiche vengono infiltrate da linfociti; dopo che tutte le cellule β sono state distrutte il processo infiammatorio si arresta, le isole pancreatiche diventano atrofiche e scompaiono i markers immunologici. Le isole del Langerhans di diabetici all’esordio della malattia sono infiltrate da cellule mononucleate che comprendono prevalentemente macrofagi e linfociti T, con una predominanza di cellule CD8 positive; può essere presente anche una piccola quota di linfociti B. A distanza di 2-4 mesi dall’inizio della terapia insulinica, meno del 10 % delle cellule β è ancora presente. Il danno riguarda selettivamente le cellule β, mentre le altre cellule endocrine dell’isola di Langerhans rimangono intatte (fig. 1.2). Fig. 1.2 - Progressione del danno β cellulare dall’insula pancreatica normale all’insulino-deficienza.

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Gli studi su modelli animali hanno evidenziato che l’invasione delle insule è preceduta dalla comparsa, alla quarta-sesta settimana di vita, di un infiltrato di cellule mononucleate (cellule dendritiche, macrofagi e linfociti) intorno alle insule stesse (peri-insulite) e da un quadro di insulite periferica (presenza di linfociti alla periferia dell’insula). In seguito, l’infiltrazione di cellule mononucleate si estende fino all’interno dell’insula. Il diabete insorge più tardivamente della dimostrazione dell’insulite franca, verso la 18-20 settimana. I linfociti T infiltranti sono sia CD4 sia CD8 attivati; alcuni studi hanno dimostrato che le rime cellule a invadere l’insula sono linfociti T CD4 positivi e in loro assenza le cellule CD8 non migrano nell’insula. Inoltre, studi immunologici hanno evidenziato che le cellule T infiltranti esprimono varie citochine, in particolare IL-4 e IFNγ, con una tendenza a un basso rapporto IFNγ/ IL-4 nell’insulite iniziale e a un elevato rapporto nell’insulite franca.

2.4 MARKERS IMMUNOLOGICI

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Il primo riscontro di anticorpi diretti contro le insule pancreatiche in soggetti diabetici di tipo 1 risale al 1974 (Bottazzo G.F., 1974). Questi autoanticorpi sono stati definiti “islet cell antibodies” (ICA) e sono un gruppo di diversi anticorpi diretti contro differenti molecole presenti nel citoplasma del pancreas endocrino, come il GAD, l’insulina, l’IA-2/ ICA512 e un ganglioside insulare. Gli ICA sono utili come markers del processo autoimmune del DM tipo 1°. Infatti, gli ICA sono presenti nella maggioranza (>75%) dei diabetici di tipo 1 all’esordio della malattia, ma la frequenza di positività per gli ICA tende a ridursi nel tempo. Nei soggetti non diabetici gli ICA sono presenti in meno dell’1% dei casi, mentre si riscontrano nel 3-4% dei parenti di primo grado degli individui affetti da DM1. Se rilevati insieme ad un’alterata secrezione insulinica dopo test di tolleranza glucidica per via endovenosa, indicano un rischio >50% di sviluppare DM di tipo 1° entro 5 anni. Attualmente gli ICA sono usati principalmente come strumento di ricerca e non nella pratica clinica, in parte a causa delle difficoltà tecniche di dosaggio, ma anche perché nessun trattamento si è dimostrato in grado di prevenire la comparsa o la progressione del DM di tipo 1A (Harrison, 2002). Gli anticorpi anti-GAD sono diretti contro l’enzima glutamatodecarbossilasi (GAD), il quale sintetizza l’acido gamma aminobutirrico (GABA), un neurotrasmettitore inibitorio presente in molti tessuti endocrini, oltre che nel sistema nervoso centrale. Sono presenti in una

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percentuale elevata di soggetti all’esordio del DM1 (>80%), soprattutto se di sesso femminile (Sanjeevi C.B., 1996). Gli anticorpi anti-insulina (IAA) sono presenti nel 37-69% dei pazienti all’esordio del DM1, raggiungendo anche il 100% nei bambini al di sotto dei 5 anni di età, ad indicare che gli IAA si associano ad un andamento più aggressivo della distruzione β-cellulare. La prevalenza di IAA nei parenti di primo grado di diabetici di tipo 1 oscilla tra l'1% e il 7% e anche in questo caso la prevalenza più elavata si riscontra nei bambini (Naserke H.E., 1996). Gli anticorpi diretti contro l’IA-2/ICA512 agiscono contro una proteina trans membrana (ICA512) dotata di attività tirosino-fosfatasica, che è parte dell’antigene IA-2. Da qualche anno è stato scoperto un nuovo marker che pare sia presente in un’altissima percentuale di pz con DMT1: ZnT8 (Zinco transporter 8) che aiuta a predire la comparsa del diabete autoimmune.

Capitolo 3 DIABETE MELLITO DI TIPO 2

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Sebbene nello studio sperimentale riportato in questa tesi siano stati presi in esame solo pazienti diabetici in età pediatrica, affetti da diabete mellito di tipo 1, è doveroso, in questa sede, trattare sinteticamente le caratteristiche anche del diabete mellito di tipo 2 (DM2). Il DM2, in passato definito diabete mellito non insulino-dipendente, è la forma più comune di diabete e rappresenta circa il 90% dei casi di questa malattia. È un gruppo eterogeneo di disordini solitamente caratterizzati da gradi variabili di insulinoresistenza, alterata secrezione insulinica e aumentata produzione di glucosio (Harrison, 2002). In genere si manifesta dopo i 30-40 anni e per tale motivo in passato era riferito anche come diabete dell’adulto. Di solito viene diagnosticato dopo molti anni in quanto l’iperglicemia si sviluppa gradualmente e inizialmente non è di grado severo al punto da dare i classici sintomi di diabete (American Diabetes Association, 2010). La diagnosi spesso avviene casualmente o in concomitanza di uno stress fisico (infezioni, interventi chirurgici).

3.1 EZIOLOGIA DEL DM2

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Le possibili cause del DM2 sono molte ma non sono state ancora definite con chiarezza. È certo che la patologia non origina da una distruzione autoimmunitaria delle cellule β del pancreas, né dalle altre cause che danno origine agli altri tipi di diabete. I fattori di rischio associati alla sua insorgenza sono numerosi e tra questi si ricordano la familiarità, la scarsa attività fisica e l’obesità.

Tab. 1.3 - Fattori di rischio per il diabete mellito di tipo 2. (American Diabetes Association, 2007)

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 Familiarità per il diabete (genitori o fratelli con DM2)  Obesità (BMI (indice di massa corporea) ≥ 25Kg/m2)  Età ≥ 45 anni  Razza/etnia (afroamericani, americani nativi, americani asiatici, ispanoamericani)  Precedente riscontro di alterata glicemia a digiuno o alterata tolleranza glucidica  Storia di diabete gestazionale  Ipertensione (valori pressori ≥ 140/90 mmHg)  Colesterolo HDL ≥ 35 mg/dl e/o trigliceridi ≥ 250 mg/dl  Disturbi del sonno, che favoriscono l’aggravamento della forma DM2 (Cunha MC, 2008).

Riguardo alla familiarità, circa il 40% dei diabetici di tipo 2 ha parenti di primo grado affetti dalla stessa malattia, mentre nei gemelli monozigoti la concordanza si avvicina al 100%, suggerendo una forte componente ereditaria della malattia. Sebbene i geni principali responsabili di questo disordine non siano stati ancora identificati, è chiaro che la malattia è multifattoriale e poligenica,

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coinvolgendo più geni responsabili della produzione di insulina e implicati nel metabolismo glucidico. Inoltre, nonostante il DM2 abbia una forte componente genetica, il difetto genetico nella secrezione o nell’azione insulinica potrebbe non manifestarsi salvo che un evento ambientale o un altro difetto genetico non si sovrapponga. Tra i fattori ambientali hanno un’importanza preminente l’obesità e l’inattività fisica. L’obesità si riscontra in circa l’80% dei diabetici di tipo 2 e, in particolare, è l’obesità viscerale o centrale (distinta dall’obesità a livello dei depositi del tessuto sottocutaneo) ad avere un ruolo di primo piano nello sviluppo della resistenza. Il tessuto adiposo è, infatti, in grado di produrre una serie di costituenti biologiche (leptina, TFN-α, acidi grassi liberi, adiponectina, resistina) che concorrono allo sviluppo dell’insulinoresistenza, in quanto modulano la secrezione insulinica, l’azione insulinica e il peso corporeo. Inoltre nell’obesità, il tessuto adiposo è sede di uno stato infiammazione cronica a bassa intensità, che rappresenta una fonte di mediatori chimici che aggravano la resistenza all’insulina. Di conseguenza, i markers di infiammazione, come l’interleuchina-6 e la proteina C-reattiva, sono spesso elevati in questo tipo di diabete. Anche l’età favorisce la comparsa del diabete, poiché essa si accompagna ad una riduzione fisiologica della sensibilità dei tessuti

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periferici all’insulina, dovuta alla diminuzione di ormoni che aumentano la permeabilità delle cellule al glucosio quali, ad esempio, il testosterone (ormone che antagonizza l’azione diabetizzante del cortisolo).

3.2 PATOGENESI DEL DM2

Nelle fasi precoci della patologia la tolleranza glucidica permane nella norma, nonostante la resistenza insulinica, poiché le cellule β del pancreas attuano un compenso aumentando il rilascio di insulina. Quando l’insulinoresistenza e l’iperinsulinismo compensatorio progrediscono, le isole pancreatiche diventano incapaci di sostenere lo stato iperinsulinemico. Compare, quindi, intolleranza glucidica caratterizzata da un’elevazione dei livelli glicemici postprandiali. Un’ulteriore riduzione della secrezione insulinica e un incremento della produzione epatica di glucosio conducono al diabete conclamato con iperglicemia a digiuno. Infine, può instaurasi l’insufficienza della cellula β. (Harrison, 2002)

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RESISTENZA INSULINICA – È l’aspetto principale del DM2, ma non è ristretto alla sindrome diabetica, infatti sia nella gravidanza sia nell’obesità la sensibilità dei tessuti all’insulina diminuisce. Consiste in una ridotta capacità dei tessuti periferici di rispondere alla secrezione insulinica, ma tale resistenza è relativa poiché livelli sovra fisiologici di insuline mia normalizzano la glicemia. La resistenza all’azione insulinica altera l’utilizzo del glucosio da parte dei tessuti insulinosensibili e aumenta la produzione epatica di glucosio: entrambi gli effetti contribuiscono all’iperglicemia del diabete. L’aumentato rilascio epatico di glucosio è principalmente responsabile dei livelli aumentato di glicemia a digiuno, mentre il ridotto utilizzo periferico di glucosio determina l’iperglicemia postprandiale. ALTERAZIONI DELLA SECREZIONE INSULINICA – Nel DM2 la secrezione insulinica inizialmente aumenta in risposta alla resistenza insulinica al fine di conservare la normale tolleranza glucidica. Successivamente il difetto della secrezione insulinica progredisce verso una condizione di secrezione insulinica francamente inadeguata. AUMENTO DELLA PRODUZIONE EPATICA DI GLUCOSIO – Il fegato mantiene la normoglicemia durante i periodi di digiuno attraverso la glicogenolisi e la gluconeogenesi, usando substrati che derivano dal muscolo scheletrico e dal tessuto adiposo (alanina, lattato, acidi grassi, glicerolo). L’insulina promuove l’accumulo di glucosio come glicogeno 30

epatico e sopprime la gluconeogensi. Nel DM di tipo 2 l’insulinoresistenza epatica origina dall’inefficacia dell’iperinsulinemia nel sopprimere la gluconeogenesi, che provoca iperglicemia a digiuno e ridotto accumulo di glucosio da parte del fegato nella postprandiale (Harrison, 2002).

Capitolo 4 SEGNI E SINTOMI DEL DIABETE MELLITO

La sintomatologia di insorgenza della malattia dipende dal tipo di diabete. Nel caso del diabete mellito di tipo 1 di solito si assiste ad un esordio acuto, spesso in relazione ad un episodio febbrile, con poliuria (pollachiuria, nicturia, enuresi), polidipsia, perdita di peso malgrado l’appetito sia conservato o accresciuto (polifagia), astenia, pelle secca e aumentata frequenza di infezioni. Agli esami di laboratorio si riscontra iperglicemia a digiuno e soprattutto dopo i pasti e glicosuria. La diuresi osmotica determina grande perdita di liquidi ed elettroliti con le urine e conseguente emoconcentrazione che causa falsa leucocitosi. Se la condizione di poliuria-polidipsia passa inosservata o non viene corretta, la situazione evolve in cheto acidosi, una condizione di grande squilibrio metabolico con severa iperglicemia (glicemia >300 mg/dl) e acidosi 31

metabolica (pH<7.3 con bicarbonati inferiori a 15 mEq/L) per accumulo di corpi chetonici prodotti dalla beta ossidazione degli acidi grassi liberi. Il paziente in cheto acidosi diabetica si presenta con alito acetonemico, disidratato (lingua disepitelializzata, asciuttezza della mucosa orale, bulbi oculari infossati, viso emaciato), con sensorio obnubilato, polipnea con respiro di Kussmaul (atti respiratori frequenti e profondi) nel tentativo di correggere l’acidosi metabolica con un’alcalosi respiratoria. In presenza di una severa chetoacidosi, letargia e depressione del sistema nervoso centrale possono progredire verso il coma. L’edema cerebrale, una grave complicanza della chetoacidosi diabetica, è osservata molto frequentemente nei bambini. Nel diabete di tipo 2, invece, la sintomatologia è più sfumata e solitamente non consente una diagnosi rapida, per cui spesso la glicemia è elevata ma senza i segni clinici del diabete mellito di tipo 1. La diagnosi è frequentemente posta a seguito di una complicanza diabetica.

4.1 DIAGNOSI

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La diagnosi di DM può essere stabilita sulla base di uno dei seguenti parametri: • Glicemia a digiuno superiore o uguale a 126 mg/dl (o 7 mmol/l); • Glicemia random superiore o uguale a 200 mg/dl associata a sintomi di iperglicemia; • Glicemia maggiore o uguale a 200 mg/dl due ore dopo aver assunto 75 g di glucosio per via orale (OGTT, test di tolleranza al glucosio). Tenendo conto che una glicemia a digiuno normale è inferiore a 110 mg/ dl e una glicemia postprandiale normale è inferiore a 140 mg/dl, esistono delle situazioni cliniche in cui la glicemia raggiunge valori che non costituiscono una condizione di normalità, ma non supera i limiti stabiliti per la diagnosi di diabete. In questi casi si parla di alterazione dell’omeostasi glicemica e, in particolare, di Alterata Glicemia a Digiuno (IFG) quando i valori di glicemia a digiuno sono compresi tra 100 e 125 mg/dl, e di Alterata Tolleranza al Glucosio (IGT) quando la glicemia, 2 ore dopo il carico di glucosio, è compresa tra 140 mg/di e 200 mg/dl. Si tratta di condizioni di “pre-diabete” che indicano un elevato rischio di sviluppare la malattia diabetica, anche se non costituiscono una condizione di patologia. Sebbene in passato il test per emoglobina glicosilata A1c (vedi oltre) non era ritenuto un test diagnostico sufficiente, una revisione

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aggiornata (International Expert Committee, 2009) degli esami di laboratorio di glicemia e A1c da parte dell’attuale Commissione Internazionale di Esperti indica che, grazie ai progressi nella strumentazione e nella standardizzazione, l’accuratezza e la precisione del test dell’A1c sono almeno uguali a quelli dei test della glicemia. Pertanto, secondo le ultime linee guida dell’ADA (American Diabetes Association, 2010), si può porre diagnosi di diabete, oltre che attraverso gli esami precedentemente definiti, anche quando il test dell’HbA1c è superiore o uguale a 6.5%. Il test deve essere eseguito da un laboratorio che usa metodi certificati dal NGSP (National Glycohemoglobin Standardization Program) e standardizzati alle analisi del DCCT (Diabetics Control and Complications Trial).

4.2 EMOGLOBINA GLICATA

L’emoglobina glicata (HbA1c oppure A1c oppure Hb1c), detta anche glicosilata, è un marker del controllo glicemico che gioca un ruolo importante nel management del paziente diabetico.

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L’emoglobina A, che rappresenta il 90% dell’emoglobina (Hb) presente nel globulo rosso, è formata da due catene di aminoacidi (alfa e beta). A un terminale della catena beta dell’emoglobina si ancorano le molecole di glucosio, formando così l’emoglobina glicosilata. Misurare la percentuale di emoglobina glicosilata di un paziente diabetico è molto utile in quanto è direttamente proporzionale alla quantità di glucosio con la quale l’emoglobina è venuta a contatto nel corso di un arco di tempo piuttosto lungo. Infatti, il legame con il glucosio permane per tutta la vita della molecola di emoglobina (120 giorni circa, che è la vita media dell’eritrocita) e quindi l’HbA1c ci consente di valutare i livelli medi di glucosio ematico degli ultimi 2-3 mesi. Da qui deriva l’importanza strategia di questo test, perché permette di verificare la qualità dell’autocontrollo glicemico messo in atto dal paziente nei tre mesi precedenti l’esame. A grandi linee, al 6% di HbA1c corrisponde una glicemia media di 120mg/ml; al 7% di HbA1c una media di 150 mg/ml e così via, in ragione di 30 mg/ml in più per ogni punto percentuale. Livelli al di sotto del 7.7% sono ritenuti accettabili, mentre livelli inferiori a 5.5% sono considerati normali. Il limite del test dell’HbA1c è che non è possibile stabile in che periodo siano avvenuti gli scompensi e che entità abbiano avuto, né le singole trasgressioni o errori sporadici nella terapia sono sufficienti ad alterare i

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valori di emoglobina glicata. Un risultato alto può essere spiegato solo con una lunga serie di iperglicemie o con un costante scompenso.

4.3 COMPLICANZE DEL DIABETE MELLITO

Il diabete può determinare complicanze acute e croniche. Le complicanze acute sono la cheto acidosi diabetica (CAD) e lo stati iperosmolare non chetosico (SINC). La CAD si osserva principalmente negli individui affetti da diabete di tipo 1, mentre il SINC negli individui affetti dal diabete di tipo 2. Entrambe le patologie sono associate a una carenza assoluta o relativa di insulina, a deplezione di volume e alterazione dello stato di coscienza. Le complicanze croniche, che spesso si manifestano dopo 10-15 anni dall’esordio del diabete, colpiscono molti apparati e sono responsabili della maggior parte della morbilità e della mortalità associate a questa malattia. Sono molto frequenti nel DM2 e si possono dividere in complicanze vascolari e non vascolari. Le prime sono ulteriormente suddivise in microvascolari (retinopatia, neuropatia e nefropatia) e macrovascolari (coronaropatia, vascolopatia periferica, malattia cerebrovascolare). Le complicanze non vascolari comprendono, a loro

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volte, vari disturbi come la gastroparesi, le disfunzioni sessuali e le alterazioni cutanee (ulcera diabetica) (Harrison, 2002).

Capitolo 5 TERAPIA DEL DIABETE MELLITO

Gli obiettivi della terapia del diabete di tipo 1 e 2 sono: 1. eliminare i sintomi correlati all’iperglicemia; 2. ridurre o eliminare le complicanze microvascolari e macrovascolari; 3. permettere al paziente di raggiungere uno stile di vita il più normale possibile; 4. assicurare una buona crescita, nel caso del bambino diabetico. I sintomi del diabete di solito si risolvono quando la glicemia è inferiore a 200 mg/dl e quindi gran parte del trattamento diabetico mira a raggiungere il secondo, il terzo e il quarto obiettivo. La cura di un paziente diabetico richiede un’equipe multidisciplinare e, per il successo di questo gruppo di lavoro, è importante la collaborazione da parte del paziente, la sua motivazione e il suo entusiasmo. I membri dell’equipe sanitaria comprendono il medico di base o l’endocrinologo o il diabetologo, l’educatore specializzato e il nutrizionista. Quando

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insorgono le complicanze sono necessarie altre figure professionali, come l’oculista, il neurologo, il nefrologo, il podologo, il cardiologo, il chirurgo vascolare e l’odontoiatra, tutti con esperienza nelle complicanze del diabete. In linea di massima, la terapia del diabete prevede una corretta alimentazione, l’attività fisica e, se necessario, la somministrazione di farmaci (insulina, ipoglicemizzanti orali). DIETA – Fondamentale è la terapia dietetica che, in alcuni quadri clinici è sufficiente da sola, in altri è associata a farmaci antidiabetici. La prescrizione dietetica deve essere seguita scrupolosamente, in particolare per quanto riguarda le restrizioni che comprendono zucchero, dolciumi in genere, gelati, bevande gasate artificiali, vini dolci e liquorosi e sciroppi. In passato venivano imposti regimi dietetici restrittivi e complessi, con regimi nutrizionali ipoglucidici. Oggi, invece, si ritiene che l’apporto di carboidrati debba costituire il 50-55% del totale di calorie al giorno, l’apporto di grassi circa il 30% e l’apporto proteico intorno al 10-20%. Le fibre e il sodio sono raccomandati ai livelli della popolazione sana e l’alcool va assunto in quantità moderate se il paziente è ben compensato. Per un miglior controllo della stabilità della glicemia, è fondamentale la suddivisione degli alimenti in tre o quattro pasti, evitando pasti eccessivamente ricchi e altri troppo poveri. Gravi deroghe alla 38

prescrizione dietetica possono essere, specie se ripetute, alla base di scompensi della malattia che possono portare al coma diabetico o al coma ipoglicemico. Nell’individuo con DM di tipo 1 l’obiettivo è di bilanciare e combinare l’apporto calorico con l’appropriata quantità di insulina, quindi la dieta e il monitoraggio della glicemia devono essere integrate al fine di definire il regime insulinico ottimale. Inoltre, bisogna minimizzare l’incremento ponderale spesso associato al trattamento diabetico intensivo. Nel soggetto con DM di tipo 2 gli obiettivi sono leggermente differenti e si indirizzano verso il notevole aumento della prevalenza dei fattori di rischio cardiovascolare (obesità, dislipidemia, ipertensione) (Harrison, 2002). ATTIVITÀ FISICA – L’esercizio fisico è una componente costitutiva del trattamento integrato del diabete che ha molteplici effetti positivi: benefici cardiovascolari, ridotta pressione arteriosa, calo ponderale, mantenimento della massa muscolare, riduzione del grasso corporeo, ecc. Nel soggetto diabetico, inoltre, l’attività fisica è utile anche per ridurre la glicemia (durante e dopo l’esercizio) e aumentare la sensibilità all’insulina (Harrison, 2002). TERAPIA FARMACOLOGIA – La terapia farmacologica prevede la somministrazione di insulina associata o meno agli antidiabetici orali.

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Il DM1 necessita inevitabilmente di terapia insulinica, vista l’insulinopenia prodotta dalla distruzione delle cellule β del pancreas, mentre il DM2 viene di solito trattato tramite dieta alimentare e antidiabetici orali. Il DM2 richiede il trattamento insulinico in rari casi, in particolare se è esaurita la riserva di insulina prodotta dal pancreas; in presenza di controindicazioni all’uso di antidiabetici orali; in caso di malattie con importante rialzo glicemico, ecc. Esistono diverse preparazioni insuliniche, ottenute per sostituzione aminoacidica dell’insulina suina e classificate solitamente in base alla loro durata d’azione. Si distinguono, pertanto, l’insulina ad azione rapida (insulina umana regolare o solubile), gli analoghi ad azione rapida (insulina Lispro, Aspart), l’insulina ad azione intermedia (NPH, insulina umana lenta), l’insulina a lunga durata d’azione (insulina umana ultralenta) e gli analoghi ad azione ritardata (Glargine, Detemir). Gli antidiabetici orali sono farmaci ipoglicemizzanti che agiscono secondo diversi meccanismi di azione. Se ne distinguono quattro diverse categorie: insulino stimolanti (Sulfaniluree e composti nonsulfanilureici), insulino-sensibilizzanti (Biguanidi e Tiazolidindioni), inibitori delle α-glicosidasi intestinali (Acarbosio, Miglitolo) e i farmaci agenti sull’asse delle incretine (incretino-mimetici, inibitori della dipeptidil-peptidasi IV).

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È possibile anche una terapia chirurgica del diabete di tipo 1, la quale prevede il ricorso al trapianto del pancreas o delle isole di Langerhans (S. Kidambi, 2008). Il trapianto del pancreas ha l’obiettivo di ridurre il bisogno di insulina esogena eliminando al contempo alcune delle manifestazioni più pericolose come l’ipoglicemia e l’ipoglicemia (G. Faglia, 2006). I risultati sono soddisfacenti (Sutherland, 2001) ma in alcuni pazienti la terapia immunosoppressiva e le complicanze chirurgiche potrebbero essere pericolose. Il trapianto delle isole di Langerhans HLA compatibili per via portografica è un intervento meno invasivo rispetto al trapianto di pancreas e, ad oggi, ha dato risultati promettenti sebbene ancora in studio. A 5 anni vi è l’80% di sopravvivenza delle isole, ma già dopo 2 anni è necessario instaurare il trattamento insulinico.

5.1 FOLLOW-UP DEL PAZIENTE DIABETICO

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Il controllo continuo della terapia è obbligatorio nel DM in quanto il paziente rischia di non rendersi conto dell'eventuale inadeguatezza della terapia o della dieta, essendo il diabete una patologia che decorre asintomatica per lungo tempo. Classicamente il follow-up lo esegue il paziente stesso attraverso il glucometro, effettuando una serie di dosaggi del proprio livello glicemico durante tutta la giornata (eventualmente anche durante la notte), verificando che i valori siano correttamente mantenuti dalla terapia in atto. Il medico ha invece l'obbligo e il diritto di verificare l'efficacia dei presidi messi in atto e per questo ai controlli quotidiani si associa un controllo periodico di tipo ambulatoristicostrumentale della emoglobina glicosilata e delle proteine plasmatiche glicate (riunite sotto il termine "fruttosamina"). Come visto, l’emoglobina glicosilata rispecchia l'andamento glicemico medio delle ultime 6-8 settimane, mentre fruttosamina riflette l'andamento metabolico degli ultimi 10-15 giorni (Diabete mellito - Wikipedia, 2010).

6.1 LA CHETOACIDOSI (DKA) 42

L’incidenza del diabete mellito tipo 1 nell’età pediatrica è in aumento in tutto il mondo. La gran parte di questi pazienti arriva alla diagnosi con una grave DKA, perché nei bambini più piccoli i sintomi di esordio possono essere lievi e spesso vengono confusi con quelli di altre patologie. La chetoacidosi è la causa di morte più comune tra i bambini con diabete. Molti decessi sono dovuti ad edema cerebrale. Una percentuale di superstiti ha danni neurologici permanenti. Il trattamento deve essere iniziato non appena la complicanza è ritenuta sospetta. Negli adolescenti la causa più frequente di DKA è la mancata somministrazione di insulina. Vista la criticità della DKA, sono state stilate diverse linee guida sia a livello nazionale che internazionale, per guidare la diagnosi e gestire il trattamento precoce. La DKA è un grave squilibrio metabolico che mette a rischio la vita del paziente se non rapidamente diagnosticato e correttamente trattato. Clinicamente si presenta con polidipsia, poliuria, astenia, calo ponderale, respiro acidotico di Kussmaul, diuresi osmotica con disidratazione grave che può evolvere fino ad uno stato di shock. Dal punto di vista biochimico risulta una glicemia >300 mg/dl, glicosuria, chetonuria, ph venoso <7,3, bicarbonati <15 mEq/l. Le complicanze sono l’edema cerebrale e aritmie ipopotassiemiche.

Il

bambino va immediatamente trattato, controllando i parametri vitali, rilevando peso e statura,

glicemia e chetonemia da sangue capillare, 43

EGA, es. urine per glicosuria e chetonuria ed ECG. Successivamente si reperisce un accesso venoso per prelevare emocromo, glicemia, elettroliti, azotemia e creatininemia e al termine ci si avvale di tale accesso, rendendolo a doppia via, tramite l’ausilio di micro pompe di infusione per reidratare il bambino, correggere gli squilibri idroelettrolitici e per somministrare la terapia insulinica e.v. Durante la prima fase bisogna monitorare ogni ora: glicemia capillare, elettroliti, EGA, azotemia e glicemia da sangue venoso.

Quando le

condizioni cliniche del paziente migliorano, corretta l’acidosi e la glicemia, si somministra insulina sotto cute ed il piccolo inizia ad alimentarsi per OS.

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6.2 LINEE GUIDA ITALIANE Il progetto diabete ha elaborato le linee guida sul trattamento della chetoacidosi diabetica, dove vengono definiti i criteri di diagnosi, la valutazione dell’emergenza, le osservazioni cliniche, il monitoraggio e le raccomandazioni al trattamento. Nell’ U.O. di Pediatria dell’A.O. Pugliese Ciaccio di Catanzaro è stato stilato un protocollo terapeutico che prevede l’utilizzo di micropompe d’infusione a doppia via. Tale protocollo per la DKA prevede nella 1° ora solo idratazione con soluzione fisiologica ad una velocità di 5-10 ml/ kg/h (in base alle condizioni del paziente) utilizzando la linea A dell’accesso venoso. Nella 2° ora inizia la terapia insulinica e.v. (insulina rapida) ad una velocita di 0,05-0,1 U/kg/h utilizzando la linea B della pompa di infusione. Non appena la glicemia raggiunge valori inferiori a 250 mg/dl viene sostituita la soluzione fisiologica con una soluzione glucosata al 5-10% aggiungendo sodio e potassio che andranno di pari passo all’infusione di insulina somministrata attraverso la via B.

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Capitolo 7 L’INSULINA L’insulina è un ormone proteico che permette, grazie a specifici recettori, l’utilizzo del glucosio ed ha pertanto azione ipoglicemizzante. La sua conformazione e la natura proteica rendono impossibili vie di somministrazione alternative e quella sottocutanea. Poiché, fisiologicamente, la secrezione insulinica varia durante la giornata, in rapporto all’introito dei carboidrati, bisogna riprodurne questo andamento circadiano con più somministrazioni giornaliere. L’insulina richiede alcune attenzioni nella sua conservazione per evitare che perda le sue caratteristiche naturali. Le fiale in uso possono essere conservate

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fuori dal frigorifero, a temperatura ambiente fino a 4 settimane. Le confezioni di riserva, vanno tenute in frigorifero tra i +4°C e i +8°C.  Agitare il flacone dell’insulina prima dell’uso;  Ad ogni cambio del penfill nella cartuccia penna o iniettore eseguire a vuoto sempre 15-20 unità per eliminare le eventuali bolle d’aria. Le siringhe:  Debbono essere utilizzate senza spazio morto superiore;  Non utilizzare mai siringhe da tubercolina o simili. Il bambino con diabete mellito non deve mai sospendere la terapia insulinica. In particolari situazioni (es. vomito) può essere ridotta la dose o modificato l’orario si somministrazione. Esistono diversi tipi di insulina:  Analogo ultrarapido  Umana rapida  Intermedia o lenta  Analogo lento  Premiscelate

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La zona di inoculo deve essere diversa ad ogni somministrazione:  Fascia addominale, ai lati dell’ombelico, ruotando in senso orario  Natiche  Braccia  Cosce, sulle aree estensorie o laterali Durante la somministrazione dell’insulina la siringa o la penna (dotata di ago corto e sottile) deve essere posizionata perpendicolarmente alla zona di iniezione con un angolo di 90°, evitare che l’ago tocchi qualche capillare o arrivi al muscolo. Bisogna evitare, altresì, somministrazioni troppo superficiali che possono alterare l’assorbimento dell’insulina. L’insulina non deve essere iniettata nelle zone di cellulite in quanto, essendo poco vascolarizzate, riducono il suo assorbimento.

7.1 TERAPIA INSULINICA INTENSIVA CONTINUA CON MICROINFUSORE (CSII) In Italia i pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1 sono circa 20.000. Di questi il 12% utilizza il microinfusore.

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Il Microinfusore è un piccolo dispositivo elettromeccanico che eroga in modo continuo insulina e può essere programmato per mimare al meglio il pattern fisiologico della secrezione pancreatica attraverso un’infusione basale continua nelle 24 h e con dei boli in corrispondenza dei pasti. Il microinfusore è composto da:  pompa infusionale controllata da un minicomputer costituito da un schermo provvisto di tasti per la programmazione dei boli e dell’erogazione continua d’insulina (insulina basale),  un serbatoio contenente l’insulina  un orologio  una fonte di energia  un set infusionale che è composto da un catetere che connete la pompa ad un sottile ago flessibile o cannula inserito nel sottocute che deve essere cambiato ogni 3 giorni L’insulina basale ideale dovrebbe essere:  Senza picco  Di lunga durata d’azione  Riproducibile nell’assorbimento Tra i vantaggi del microinfusore ricordiamo: 49

 migliore controllo metabolico  migliore qualità della vita Tra gli svantaggi ricordiamo:  necessità di controlli glicemici più frequenti  pompa “connessa” 24ore su 24 Oggi è possibile fare il monitoraggio glicemico che ci permette di:  adattare meglio la terapia insulinica dei singoli pazienti per ottenere livelli glicemici il più possibile simili a quelli fisiologici;  diminuire gli episodi di ipoglicemia severa e controllare le iperglicemie a rischio di DKA;  diminuire i livelli di emoglobina glicosilata (HbA1c);  ridurre le complicanze. Le frequenti misurazioni della glicemia permettono al paziente di migliorare il controllo glico-metabolico adattando la quantità di insulina somministrata . Si riducono così gli episodi ipoglicemici e di DKA. Attraverso un diario aggiornato con tutti i rilevamenti effettuati, è possibile avere un’idea sull’andamento generale della malattia. Il buon controllo della glicemia permette di ridurre i valori dell’ HbA1c con una riduzione del rischio delle complicanze della malattia. Nel programma

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educativo svolto dagli infermieri è incluso l’utilizzo del diario per l’autocontrollo domiciliare fondamentale per la gestione del diabete.

Capitolo 8 L’ALIMENTAZIONE

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 Un bambino diabetico ha bisogno di un’alimentazione uguale a quella di un bambino non diabetico: Carboidrati 55%, Lipidi 30%, Proteine 15%. E’ indicato, inoltre, un buon apporto di fibre vegetali  Una dieta troppo drastica e carente in carboidrati non solo non migliora il controllo del diabete, ma ostacola il corretto accrescimento del bambino.  La dieta deve essere appropriata e vanno limitate solo le assunzioni di zuccheri semplici.  Il bambino non deve essere abituato a mangiare quello che vuole e a decidere la dose di insulina in base al cibo assunto.  Il miglior controllo della malattia si ottiene con il giusto equilibrio tra terapia insulinica ,dieta e attività fisica.  La distribuzione dei pasti è suddivisa in:

colazione, spuntino,

pranzo, merenda e cena.

Capitolo 9

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L’EDUCAZIONE/FORMAZIONE. Spesso l’infermiere è la figura che ha il primo contatto con il bambino e con i genitori. Oltre a dover gestire in prima persona molti aspetti pratici della terapia, frequentemente gli vengono posti tutti i quesiti generati dall’angoscia dei genitori e dallo stato a volte critico del piccolo paziente. L’infermiere deve pertanto conoscere gli aspetti fondamentali del diabete e la sua gestione in corso di emergenza. Terminata la fase acuta l’infermiere inizia un programma di educazione al bambino e la sua famiglia. L’educazione terapeutica ha come obiettivi:  Ottenere il miglior controllo glicemico e metabolico possibile;  Ridurre significativamente la prevalenza delle complicanze;  Fare in modo che la malattia interferisca il meno possibile sulla qualità di vita del bambino e della sua famiglia. Preferibilmente la maggior parte dei programmi dovrebbero essere svolti in un contesto non ospedaliero o in un ambiente ospedaliero mediante lezioni individuali o di gruppo. Il programma educativo dovrebbe utilizzare metodi interattivi, mirati al paziente e adatti a tutte le persone coinvolte nella gestione del diabete. I bambini e gli adolescenti, i loro genitori e quelli che in genere si prendono cura di loro dovrebbero tutti

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aver la possibilità di essere inclusi in un programma educativo. L’educazione sanitaria al diabete dovrebbe essere prestata da professionisti che abbiano una profonda conoscenza dei bisogni dei giovani e delle loro famiglie e di come tali bisogni mutino nel corso della vita. L’educazione al diabete, perché sia efficace, deve essere un processo continuo e costante di apprendimento. Terminata la fase acuta il bambino ancora ricoverato inizia un programma di educazione all’autogestione della malattia, che consiste in:  Spiegazione di come sia stata fatta la diagnosi e motivo dei sintomi.  Semplice spiegazione per una possibile causa del diabete. Nessun fatto da incolpare.  Necessità immediata di insulina e suo funzionamento.  Cose’è il glucosio? Livelli normali di glicemia e obiettivi da raggiungere.  Nozioni pratiche.  Iniezioni di insulina.  Analisi del sangue e/o delle urine e motivi per i controlli.

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 Consigli dietetici.  Il diabete a casa o a scuola, compresi gli effetti dell’attività fisica.  Iscrizione ad un’Associazione per diabetici e ad altri servizi di supporto.  Adattamento psicologico al momento della diagnosi. Il programma di educazione all’autogestione continua in regime di day hospital organizzato prima della dimissione con date già stabilite. I contenuti principali di un programma educativo devono gradualmente comprendere i seguenti argomenti:  Secrezione insulinica, azione e fisiologia.  Iniezioni di insulina, tipi, assorbimento, azione, cambiamenti e regolazioni.  Alimentazione - piano diabetico; carboidrati, grassi e fibre.  Controlli, inclusi l’emoglobina glicosilata e gli obiettivi dei controlli.  L’ipoglicemia e la sua prevenzione, riconoscimento e gestione, incluso l’uso del glucagone.  Malattie, iperglicemia, chetosi e prevenzione della cheto acidosi.

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 Complicanze micro e macro – vascolari e loro prevenzioni.

9.1 I CAMPI SCUOLA  Sono dei "momenti" di educazione ed addestramento teorico – pratico all'autogestione della malattia organizzati in forma "residenziale", in ambienti extraospedalieri al quale partecipano in funzione di docenti, per le singole competenze, medici ed infermieri qualificati, ed anche dietista, psicologa, animatori, diabetici guida e rappresentanti delle associazioni di genitori.  La durata di un campo, normalmente varia dai sette ai dieci giorni e per tutto il periodo i ragazzi e l'equipe socio-sanitaria fanno vita comune. Le lezioni teoriche si alternano ad esercitazioni pratiche permettendo in tal modo di verificare il grado di apprendimento e colmare eventuali lacune. Ciascun ragazzo è stimolato a compiere da solo, qualora non lo faccia gia', i controlli e le terapie necessarie. Per raggiungere questi obiettivi le Associazioni locali dei Giovani Diabetici, AGD, ADIG ecc. e la Federazione nazionale che le raggruppa,

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FDG, organizzano annualmente ed in collaborazione con le Strutture Diabetologiche, ormai da moltissimo tempo, campi scuola per bambini ed adolescenti ed anche corsi di aggiornamento per giovani adulti con diabete.

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