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STRUMENTI

Tiziana Momigliano

IL LATINO CON GIOIA LEZIONI DI UNA PROFESSORESSA

OMAGGIO A TIZIANA MOMIGLIANO (Torino, 5 marzo 1911 - Milano, 17 dicembre 2004) di Giampiera Arrigoni

Ancor prima di conoscerla sapevo che era ‘la professoressa’. Suo fratello Arnaldo l’aveva citata ai miei allievi, che gli chiedevano consiglio sul loro futuro, come l’esempio più riuscito dello scontato e deprezzato lavoro di professoressa. Da quando la conobbi (nel 1986) ho cominciato a capire il perché. Lungi da qualsiasi tipo di retorica, si vantava però di aver addestrato i suoi allievi alla concisione con i suoi famosi esercizi di riassunto in x parole. Per il resto aveva tutta la naturalezza e la spontaneità di chi ha trovato la sua strada nel lavoro. Coltivava con cura i rapporti con i suoi ex allievi, che ancora la ricordavano e le facevano visita coi bambini, ma aveva avuto anche allievi più grandi, poi diventati amici devoti. Negli ultimi anni, quando incominciò a scrivere le sue memorie, era solita citarmi la frase del suo preside che, sentendola insegnare di passaggio nel corridoio, l’aveva invidiata perché «si divertiva a insegnare» 1. Eppure era severa di modi e di indole, fulminea e inesorabile nel giudicare se stessa prima degli altri, un’osservatrice finissima e una lettrice appassionata

1 L’episodio è da lei ricordato anche nella chiusa delle sue memorie (scritte negli ultimi due anni di vita per la nipote Anna Laura Lepschy Momigliano): Cronaca di una vita… di un’insegnante [titolo postumo], «Il Caragliese» (Quindicinale di Caraglio e della Valle Grana) XXVII, 17 (28 settembre 2006), p. 13: «Voglio concludere questi ricordi con il pensiero di un preside della Tiepolo. A mia insaputa egli si fermava davanti alla porta aperta della mia aula e ascoltava mentre facevo lezione. Un giorno mi disse che aveva notato il mio modo divertito di stare con i ragazzi. Era vero: io mi divertivo, sia con gli allievi culturalmente più preparati, sia con quelli che per primi in famiglia affrontavano la scuola media e io dovevo cercare di scoprire quali fossero le loro capacità e le loro attitudini».

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(Saul Bellow il suo autore preferito, ma anche Claudio Magris, Primo Levi e Tomasi di Lampedusa). Negli ultimi anni mi aveva parlato delle sue lezioni di latino scritte per la rivista «La Scuola Media» e pubblicate, a cadenza mensile, dall’ottobre 1972 al maggio 1973, di cui possedeva le copie. Mi aveva pregato di procurarle le fotocopie di una lezione che le mancava. Non ricordava più di aver scritto la lezione Ottava sulla morte e i riti funebri, che ho scoperto dopo la sua morte facendo i controlli in biblioteca in vista della pubblicazione. Evidentemente ci teneva. Le ricordavano i pomeriggi passati in casa a preparare i passi da tradurre e da utilizzare come spunto per insegnare (insieme a grammatica e sintassi) anche la vita dei Romani. L’originalità di queste sue Lezioni mi parve subito evidente tanto che le fotocopiai e ne regalai una copia ad una mia allieva divenuta insegnante, che ha iniziato ad utilizzarle apprezzandone la modernità. Tiziana ne fu contenta: l’insegnamento del latino alla sua maniera continuava. Nella sua professione di insegnante si proponeva di risvegliare l’entusiasmo, fugare la passività e insegnare con gioia il latino. Sono tratti che emergono anche da quella che abbiamo chiamato la sua «Premessa metodologica» (p. 35): Noi vogliamo tentare anzitutto sin dalla prima lezione di accogliere con gioia i ragazzi che vengono ad ascoltare le nostre lezioni. Proprio perché il latino è una disciplina facoltativa, l’entusiasmo di chi insegna e di chi impara può essere più genuino e creare una piacevole atmosfera di libertà.

La sua concezione di «facoltativo» è totalmente etica: mira all’eccellenza, di cui componente essenziale è l’impegno libero e spontaneo proprio perché frutto di libera scelta. Una soluzione di comodo è per lei impensabile 2. Nate in anni di contestazione al metodo tradizionale di studiare il latino, le Lezioni di Tiziana cercano nuove strade ma non fanno alcuna concessione allo spirito del tempo: basta guardare la sequela e il tipo di esercizi da lei proposti. In effetti, sottraendo gli allievi al supplizio dello studio mnemonico del latino, ancora in auge negli anni Settanta, li apriva alla conoscenza di una grande civiltà del passato facendoli entrare «nel vivo delle istituzioni politiche, civili e religiose dei Romani» (p. 35). Il tutto attraverso la conoscenza diretta e primaria dei testi antichi spesso non convenzionali, incluse le epigrafi (ancora oggi

2 Nelle sue memorie ritorna sull’argomento: «L’aggettivo ‘facoltativo’ per molti era inteso non come libertà di scelta a iscriversi, ma come libertà dall’impegnarsi o meno nel suo studio» («Il Caragliese», p. 13).



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generalmente trascurate da professori di latino unicamente proiettati verso la letteratura colta). Da buona umanista non trascura l’analisi stilistica dei testi cercando di cogliere «l’energia della lingua stessa», che aiuta gli studenti a diventare «maggiormente partecipi di questa cultura» e in grado di capire meglio anche l’italiano (p. 36). È lo sguardo di una italianista: Tiziana si era laureata in Letteratura italiana a Torino nel 1936. Eppure Il latino con gioia non è semplicemente una raccolta tematica di testi per rendere più accettabile il latino agli studenti. Se così fosse Tiziana si limiterebbe solo a continuare la nobile tradizione, già inaugurata agli inizi del Novecento da Carlo Giorni col suo fortunato libro La vita dei Romani, descritta dagli antichi. Letture latine di prosa e poesia, raccolte ed annotate per le scuole classiche (1a ediz. Firenze 1906, 2a ediz. riveduta Firenze 1912). Egli si era studiato di raccogliere brani fra autori vari di tutto l’arco della civiltà latina 3 per cercare di rendere viva, agli occhi dei giovani allievi, l’antichità classica e «per non lasciare che vada spezzata la catena che lega il presente col passato» (Pref. p. VI). Il suo tentativo mirava a superare la barriera di noia che spesso ingenerano gli studi classici «freddamente e aridamente esposti, come nei soliti manuali di storia, di mitologia e di antichità classiche» (ibidem). Ma Il latino con gioia di Tiziana Momigliano è qualcosa di più: è un latino calato nella società, non relegato semplicemente al mondo degli scrittori messi in rapporto reciproco in un vuoto torricelliano, come si usava per lo più fare negli anni Settanta in Italia. È la lingua che serve a raggiungere e a capire i Romani. E la società romana è esaminata nei suoi più importanti aspetti, tutti in qualche modo correlati fra loro: la letteratura, la storia, l’economia, la religione, la vita civile e quella militare. Tutto a partire dalla lettura diretta dei testi, come sottolinea nella «Premessa metodologica». Così ad esempio si era accorta che nel mondo romano la vita pubblica è intimamente connessa con quella religiosa al punto da considerare i collegi sacerdotali quali pubbliche magistrature 4. Analogamente, parlando di ludi, sottolinea che a Roma i più antichi hanno carattere religioso e non a caso sceglie i Consualia di Romolo 5. Da storica delle religioni classiche non posso che darle ragione. La conferma viene da un famoso passo illuministico di Polibio (uno storico greco del II sec. a.C.), da cui risulta inequivocabilmente che la religione a Roma occupava «ogni aspetto della vita privata e degli affari pubblici della città» 6. Con molta più linearità (ed 3 Superando «la cerchia troppo ristretta dei puri scrittori classici», come scrive nella Prefazione, p. VIII. 4 Seconda lezione, pp. 56-57. 5 Settima lezione, p. 134. 6 Polyb. VI 56, 6-14: la spiegazione che egli dà di questo fenomeno è all’insegna di un pragmatismo diremmo machiavelliano, ma la sua conclusione è che la religione degli

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un fondo di nostalgia) ragiona un Romano come Sallustio, quando afferma che i templi degli dèi furono costruiti dagli antenati, religiosissumi mortales 7 la cui devozione ornava i santuari. Anche Cicerone è convinto che la grandezza dello stato romano è dovuta a chi ha obbedito ai dettami della religione: «E se vogliamo paragonare le nostre caratteristiche con quelle di popoli stranieri, si troverà che in altri aspetti noi siamo pari o anche inferiori, mentre nella religione, ossia nel culto degli dèi, noi siamo molto superiori» 8. Tiziana ci tiene a mettere in evidenza che, nella società romana, vi è «uno stretto rapporto fra la vita civile e militare; l’una influenzava l’altra e ambedue condizionavano il modo di sentire e di essere di tutto il popolo» 9, senza dimenticare che, al di là degli «aspetti concreti della vita militare», vi sono gli uomini che vivono quella esperienza. Traspare qui in lei un risvolto di quella umanità ben nota a chi l’ha conosciuta. Nel Latino con gioia Tiziana parla anche agli insegnanti invitandoli a fare ricerca attiva: Nulla è più interessante dei documenti della romanità scoperti nelle province. Noi ci ripromettiamo, nel corso di queste lezioni, di offrirne qualche esempio, per invitare i colleghi a ricercare nei musei cittadini, nelle pareti delle chiese o degli edifici, ove talvolta sono murate, le eventuali iscrizioni scoperte nelle località in cui insegnano. 10

Questa considerazione si traduce in un suggerimento didattico molto interessante ed istruttivo 11, ma l’idea viene da lontano. In un articolo del 1930 12, dedicato al passato del suo paese, Caraglio (provincia di Cuneo), Tiziana ricordava la presenza nella chiesetta di S. Lorenzo di lapidi murate che, con altri oggetti e monete raccolte nel territorio, ricordavano come «vicino a Caraglio sorgesse un centro romano di qualche importanza, denominato Germanicia, la cui origine è antichi a Roma è utile, ha la sua logica, il suo fondamento e la sua utilità pratica assai più delle critiche dei moderni ad essa refrattari. Un po’ diversamente l’aristocratico sofista Crizia (Vorsokratiker 88 B 25). 7 Sall. De con. Catil. 12, 3. 8 Cic. De nat. deor. II 8. Cfr. anche De har. resp. 19 sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnes gentes nationesque superavimus. I Greci non vedevano diversamente i Romani: Posidonio fr. 81 Theiler = fr. 266 Edelstein-Kidd = FGrHist 87 F 59; Dion. Hal. Ant. II 18-19. 9 Terza lezione, p. 65. 10 «Premessa metodologica», p. 37. 11 Vd. Quarta lezione, p. 98. 12 T. Momigliano, Caraglio, «Subalpina» (Rivista mensile illustrata) III, 5 (maggio 1930), pp. 19-24, in part. p. 20. Sono grata alla comune amica Vittorina Casasso Martino per avermi fatto conoscere questo articolo.

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fatta risalire a Germanico, figlio di Claudio Druso». L’intento di Tiziana è quello di legare il presente al passato e di ritrovare il passato nel presente 13, ma senza la retorica e i paludati travestimenti di fascistica memoria. Fin da subito mette in chiaro il suo atteggiamento nei confronti delle informazioni su Roma arcaica. Non giustifica né esecra l’ipercritica, quel che le interessa è la «rappresentazione» (noi oggi diremmo l’immagine) per salvare in ogni narrazione la capacità di suscitare commozione (evidente influsso crociano) 14. E tuttavia ammira il severo Livio pregno di ideali repubblicani, la sua capacità di narrare i fatti (Cincinnato) «con estrema concisione, senza commenti» 15. Questa sua tensione idealistica traspare specialmente nella lezione sull’educazione (la Sesta) sia nella scelta dei testi (Valerio Massimo e Tacito) sia negli scopi che si propone. Di nuovo nell’aneddotica prescinde dalla questione della realtà o meno dell’episodio, ma cerca di cogliere «l’ideale educativo dei Romani», ovviamente in particolare l’ideale tradizionale repubblicano (Tacito è citato per la critica alle usanze coeve). Per Tiziana, nel mondo romano, funzionavano due modelli educativi precoci, la famiglia e i modelli concreti da imitare, i cosiddetti exempla. Funzionava non solo l’imitazione diretta del padre, ma anche degli avi ‘leggendari’ o ‘mitici’: Orazio Coclite, Muzio Scevola, Attilio Regolo, Fabrizio 16. Si tratta dei ben noti exempla che di certo furono utilizzati nella scuola di Tiziana, come lo sono stati ancora nella mia. Ed è interessante notare in proposito che l’idea di Tiziana ricorda la posizione di Henri-Irénée Marrou (1904-1977), nel notissimo libro Storia dell’educazione nell’antichità: «[…] l’educazione romana può dirsi un’imitazione degli antenati» 17. Dopo, e soltanto dopo, veniva la scuola. Argomento che la interessa parecchio, nella sua complessità, come mostrano i suoi suggerimenti di ricerca ulteriore sui criteri e metodi educativi, riservando però ampio spazio (e passi memorabili) alle qualità, ai propositi, alla capacità richiesti agli insegnanti dell’antichità 18. L’importanza del gioco nell’educazione si riverbera sulla lezione dedicata agli spettacoli, cari all’indole intellettualmen13 Cfr. Terza lezione, p. 75; Quarta lezione, p. 93; Quinta lezione, p. 111; Sesta lezione, p. 123; Settima lezione, pp. 138-139. 14 Prima lezione, p. 42. 15 Analoga ammirazione riserva a Sallustio per il suo stile «asciutto e stringato»: Seconda lezione, p. 63. 16 Sesta lezione, pp. 120-121. 17 H.-I. Marrou, Histoire de l’éducation dans l’antiquité, Paris 1948, 3a ediz. 1954, trad. it. Roma 1950. Cito dalla trad. it. Roma 1966 (2a trad. it. sulla 6a francese), pp. 310-312 (il padre), 314-317 (exempla). Ora vd. A. Corbeill, Education in the Roman Republic: Creating Traditions, in Y.L. Too (Ed.), Education in Greek and Roman Antiquity, Leiden - Boston Köln 2001, pp. 261-287. 18 Sesta lezione, pp. 115 e 122-123.

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te aperta e curiosa di Tiziana, senza però dimenticare di introdurre un passo di Cicerone sui ludi sfarzosi ma grossolani e crudeli offerti da Pompeo, che solleva chiari distinguo fra gusti popolari e gusti colti 19. Infine non poteva mancare una lezione sulla morte e i riti funebri (la Ottava), forse la più autobiografica delle Lezioni, alla ricerca delle ragioni profonde che stanno alla base della rappresentazione dell’aldilà e di quelle ragioni che – tenendo fede alla religione degli avi – dettano il culto dei morti. Senza escludere, ancora una volta, accanto alle testimonianze letterarie, le amate epigrafi e senza dimenticare i collegia funeraticia 20 che venivano incontro ai bisogni di chi «deve prendere prima di morire tutte le disposizioni che di solito spettano agli eredi». In questa lezione le immagini si infittiscono: accanto ai monumenti di personaggi illustri o di alta committenza (Figg. 5, 7, 9) non mancano immagini che ricordano personaggi più umili (il fornaio Eurísace, Fig. 6) o donne di provincia (la stele di Palmira, Fig. 8). Le Lezioni spaziano dai (sobri) costumi romani di epoca repubblicana, alla vita politica, alla vita militare e alla guerra (e qui traspare dolorosamente la consapevolezza di una esperienza drammatica vissuta) 21. Sollecitata – come mi disse – dalla domanda di un figlio di amici nel corso di una gita sul perché della denominazione della via Emilia, aveva scritto la lezione sulle vie romane (la Quarta). Nell’attenzione alla vita economica e all’agricoltura vi è tutta l’eco (a me pare) della sua infanzia a Caraglio e il riflesso di una sua naturale disposizione alla concretezza. Riservatissima fino al punto da sembrare superba 22 (diventava confidenziale e splendidamente franca nella cerchia più ristretta di parenti ed amici), ha riversato nell’insegnamento e nello studio la sua anima orgogliosa, a tratti risentita, ma al fondo umanissima, come testimoniano chiaramente le sue memorie stampate nel «Caragliese». La pubblicazione del Latino con gioia le avrebbe fatto sicuramente piacere, perché è un modo per tramandare una scheggia di quell’insegnamento che le fu caro. Le fu caro anche perché conquistato con fatica, come scrive nelle sue memorie, che sono una sorta di diario del suo insegnamento, dalla laurea alla pensione, un diario scandito da supplenze iniziali, esoneri forzati in quanto

Settima lezione, p. 137. Già citati nella Quinta lezione sull’economia, p. 108 (Associazioni di categoria). 21 Terza lezione, p. 75: «Ma perché i ragazzi sappiano che la guerra in ogni tempo ha sempre recato sofferenza e lutti, noi riportiamo anche un altro passo di Livio […]». 22 Come ricorda la neolaureata Tiziana, nel 1937 supplente all’Istituto Magistrale «De Amicis» di Cuneo, nelle sue memorie, «Il Caragliese», p. 10: «Nella sala professori ero timorosa e me ne stavo in disparte. Le insegnanti erano tutte di ruolo e affiatate tra loro […] ebbi contatto con alcune di esse e scoprii che la mia ritrosia era stata scambiata per superbia».

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ebrea durante l’ultimo periodo fascista, lezioni private come istitutrice (per vivere) e quindi, dopo la guerra, incarichi annuali fino ai sospirati «trienni di continuità». Ma lasciamo a lei stessa la parola: Quando mi ero laureata [il 15 dicembre 1936 in Letteratura italiana], ambivo a insegnare in un liceo, poi gli avvenimenti mi avevano travolta. 23

E gli avvenimenti saranno le leggi razziali del 1938, che a poco a poco stringono la morsa attorno alla popolazione ebrea d’Italia (40.000 persone circa), rendendole progressivamente impossibile la vita 24. Tiziana ha presentimenti inquietatanti di quel che sta per succedere e il suo intuito suggerisce a lei, che aveva studiato con lena e passione, di anteporre il piacere al dovere: Io avrei dovuto studiare per il prossimo concorso, ma la campagna antisemita iniziata nei quotidiani 25 mi dava la certezza che non vi avrei mai partecipato. Andavo in battello alle isole e alle località più note del lago [stava insegnando a Intra nell’anno scolastico 1937-38]; la domenica al Mottarone, sciavo con i colleghi veneti; incontravo al

«Il Caragliese», p. 13. Interessante ricordare qui la testimonianza di un cugino di Tiziana, Eucardio Momigliano, il cui libro (il primo del genere in Italia) Storia tragica e grottesca del razzismo fascista, Milano, Mondadori, 1946, è il resoconto lucido e preciso di una persona che fu antifascista e perseguitata dal regime fin dal 1923. Su Eucardio (Monesiglio, Cuneo, 1888 Milano, 1970), avvocato di professione poi perseguitato dai fascisti come antifascista e riciclatosi (per forza, ma ottenendo grande successo, anche internazionale) come biografo, si veda il profilo (a firma E.L.) pubblicato come Premessa al libro citato. Una messa a punto in G. Arrigoni, Identità e memoria: la «Singolare esperienza» di Eucardio Momigliano, ora in Il mio cuore è a Oriente. Studi di linguistica storica, filologia e cultura ebraica dedicati a Maria Luisa Mayer Modena, a cura di F. Aspesi, V. Brugnatelli, A.L. Callow, C. Rosenzweig, Milano 2008, pp. 591-602. 25 I primi segnali dell’antisemitismo compaiono sulla stampa italiana nel 1937, specialmente dopo il novembre 1937, e soprattutto dopo il viaggio di Hitler a Roma (maggio 1938). La Germania preme e Mussolini deve ubbidire: il 14 luglio 1938 esplode l’antisemitismo italiano, diramato su tutti i giornali, secondo gli ordini di Berlino (si tratta del cosiddetto «Manifesto degli scienziati razzisti» o «Manifesto della razza», apparso anonimo su «Il Giornale d’Italia» il 14 luglio 1938, su cui vd. ora: G. Israel - P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino, 1998, in part. p. 210 ss.; R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 225-241). Il 19 luglio viene creata, presso il Ministero dell’interno, una Direzione della Demografia e della Razza. Mussolini (con improvviso voltafaccia) cerca di convincere gli Italiani in discorsi pubblici (a Forlì, luglio 1938; a Trieste, settembre 1938) che il razzismo è un’invenzione sua, che egli non imita nessuno, che è in relazione con la conquista dell’Impero (1936) e la stampa unanime inneggia alla nuova politica antisemita del regime: vd. Eucardio Momigliano (Storia tragica, supra, nt. 24), pp. 45, 48-49, 53-59 (altri particolari e puntualizzazioni in Israel - Nastasi e Maiocchi).

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caffè gli insegnanti siciliani. La mia vita era in apparenza serena, ma avevo la sensazione che tutto fosse molto precario. 26

Non si ingannava: quando il 3 settembre 1938 viene emanato il primo decreto contro gli ebrei italiani, la ventisettenne Tiziana annota con spoglio e desolato linguaggio burocratico: […] il preside mi informò che ero esentata dagli esami autunnali. Il mio grembiule nero con il colletto bianco rimase appeso nell’armadio che era stato mio nella sala professori. 27

Rimasta senza lavoro, come il fratello Arnaldo destituito dalla sua cattedra alla regia Università di Torino 28, Tiziana per vivere si adatta a fare – lei che veniva da una famiglia agiata di Caraglio – l’istitutrice privata in casa delll’italianista ebreo Mario Fubini a Torino per tutto il 1939. Ma gli eventi precipitano e per lei comincia l’odissea. Nel 1940 ripara a Milano e, con la sorella Fernanda (Torino, 2 aprile 1913 - Milano, 17 gennaio 2004), va ad abitare in una camera ammobiliata di via Settembrini 30, che (annota Tiziana) «era attigua – ironia della sorte – al Provveditorato degli Studi con andirivieni di docenti e mia grande malinconia» 29. Ma Milano (a differenza di Roma che è il palcoscenico del regime) non è molto fascistizzata e qualcuno l’aiuta: in quell’anno un preside solidale con gli ebrei le affida il riordino della biblioteca e del catalogo: Lavoravo in silenzio in un angolo della sala professori, timorosa di essere identificata. Provavo invidia per tutti i docenti che avevano il registro in mano. 30 «Il Caragliese», p. 10. «Il Caragliese», p. 10. Dall’agosto del 1938 si susseguono i decreti: prima contro gli ebrei stranieri poi (3 settembre 1938) contro gli ebrei italiani (Eucardio Momigliano, supra, nt. 24, p. 69). Prosegue Eucardio (ibidem): «[…] il consiglio dei ministri, con decreto d’urgenza, decide che tutti gli insegnanti ed allievi israeliti delle scuole italiane di ogni ordine e grado siano cacciati, dall’asilo infantile fino all’università. Sono pure esclusi dalle accademie, dagli istituti e associazioni di cultura, scientifiche e letterarie e dalle biblioteche ed archivi». L’esecuzione del decreto ebbe inizio il 16 ottobre 1938. Tutto fu poi trasferito nella grande legge razzista del 17 novembre 1938 (Eucardio, p. 85). Alcune correzioni ai dati di Eucardio apporta M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2000, in part. pp. 196 (nt. 303), 211 (nt. 362). 28 Vd. la lettera di Arnaldo Momigliano a Ernesto Codignola del 14 settembre 1938 pubblicata in A. Momigliano, Pace e libertà nel mondo antico, a cura di R. Di Donato, Scandicci (Firenze) 1996, n. 16, pp. 157-160. Ora ampia documentazione in L. Polverini, Momigliano e De Sanctis, e L. Cracco Ruggini, Gli anni di insegnamento a Torino, in L. Polverini (a cura di), Arnaldo Momigliano nella storiografia del Novecento, Roma 2006, rispettivamente pp. 20-23 e 121-123. 29 «Il Caragliese», p. 10. 30 «Il Caragliese», p. 12.

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Alla disgrazia di essere giovane ed ebrea perseguitata durante quella guerra e in quel clima di assurdità si somma la malinconia, l’invidia per una professione negata e per cui aveva studiato con lena, passione e successo. Durante la guerra, per sopravvivere, le due sorelle, che avevano ottenuto una carta d’identità con falso cognome 31, si adattano a fare lavori occasionali (e talora umilianti), ma cercano anche, ciascuna a modo suo, di mettere a frutto le proprie competenze. Fernanda più intraprendente (diventerà dopo la guerra una brillante imprenditrice), Tiziana più cauta, ma non meno decisa. Spronata dal cugino Rinaldo De Benedetti (che viveva e lavorava in clandestinità nella Milano fascista) 32 ad accettare qualsiasi lavoro intellettuale le fosse offerto (un monito che spesso mi ricordava), dà lezioni private, ma lavora anche per case editrici (la Fratelli Vallardi) come correttrice di bozze. Frequenta la casa di professori antifascisti e, grazie all’appoggio di un letterato antifascista molto tenace (più volte imprigionato) come Mario Vinciguerra (Napoli, 1887 - Roma, 1972) 33, ottiene l’incarico di correggere bozze di romanzi per la Bompiani e soprattutto la redazione di ben 49 voci per il Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi che era allora in preparazione e che si rivelerà dopo la guerra un grande successo internazionale 34. Sotto falso nome e grazie all’appoggio di Vinciguerra, scrive anche un manuale di storia per la scuola media, che ho rintracciato: apparve sotto il nome di Silvia Spellanzon, Voci dai secoli (vol. I), pubblicato 31 Il nome di entrambe era rimasto lo stesso (per non tradirsi), il cognome era Gatti. Tiziana («Il Caragliese», p. 10) parla di una carta d’identità con falso cognome ottenuta con l’aiuto di un impiegato del Comune di Monza. 32 Rinaldo De Benedetti (Cuneo, 1903 - Milano, 1996). Particolarmente interessanti le sue Memorie di un Nonagenario (inedite), che ho potuto leggere grazie alla squisita cortesia della figlia Anna De Benedetti Fuertos, ora edite col titolo Memorie di Didimo, Milano, Scheiwiller, 2008. Un profilo biografico-intellettuale e l’elenco completo delle opere di questa originale figura di ingegnere, giornalista, divulgatore scientifico, scrittore e poeta si possono leggere in R. De Benedetti, Sonetti Vespertini, Prefazione di M. Hack, con uno scritto di P. Bianucci, Milano, Scheiwiller, 2006, pp. 125-134. 33 Su Mario Vinciguerra, pubblicista e scrittore, vd. Enciclopedia Italiana, Appendice III 1949-1960, Roma 1961, p. 1097; Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, s.v. Vinciguerra Mario VI (1989), p. 399; G. Ferro, Milano capitale dell’antifascismo, Milano, Mursia, 1985, pp. 47, 72-73, 164, 169, 179-180; A. Carioti, Vinciguerra azionista girondino, Presentazione a M. Vinciguerra, I Girondini del ’900 e altri scritti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. 5-35 (ringrazio della segnalazione il collega di Storia contemporanea prof. Ivano Granata). 34 «Le mie voci portavano il nome di Vinciguerra, ma segretamente era custodito il mio», esclama con complicità e fierezza nelle sue memorie («Il Caragliese», p. 10). Dizionario letterario Bompiani delle opere e dei personaggi, voll. I-IX, Milano 1946-1950 + 3 voll. di Appendici, Milano 1964-1979. L’opera è stata recentemente ristampata con integrazioni (a volte banali), ma senza lo splendido apparato iconografico, Milano, Bompiani 2005, voll. IXII, rist. Milano, RCS, 2006. Le 49 voci di Tiziana (sigla T.M.) sono tutte conservate.

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nel 1941 per la Marzocco di Firenze, un libro a tratti di chiara ispirazione fascista, ma a basso tasso di fascistizzazione, che merita di essere studiato per molteplici motivi 35. Nelle sue memorie Tiziana accenna brevemente (e con modestia) alla sua collaborazione alla Enciclopedia della donna, pubblicata dalla casa editrice milanese Bianchi-Giovíni 36. Io ho potuto consultare solo la seconda edizione riveduta ed ampliata, a cura di Bianca Ugo, uscita nel 1946 37. Le voci vere e proprie sono intitolate «Il repertorio della donna» e occupano ben 782 pagine (pp. 206-987). I lemmi sono i più svariati e trattano di cucina, piante, malattie, sostanze chimiche, casa, gioielli, animali, lavori a maglia e a ricamo, feste (Natale, Ognissanti, Pasqua – compresa la Pasqua ebraica – Quaresima, Rogazioni), razze. La voce Ripetizioni sembra contenere qualche traccia che porta a Tiziana nel dire che lo scopo delle ripetizioni deve essere quello di porre l’alunno in grado di fare da sé, e assai probabilmente autobiografica è l’osservazione finale: «Il ripetitore che viene in casa sia trattato su un piano di perfetta uguaglianza». Anche la voce Severità ricorda molto le convinzioni di Tiziana quando afferma: «Nell’educazione la severità deve essere più sostanziale che esteriore. Essa deve consistere soprattutto nella rigorosa coerenza (il no sia no; il sì sia sì); nell’indulgenza verso i piccoli falli senza conseguenza, ma nel rigore verso quelli più gravi o che, pur non essendo tali, rivelano un atteggiamento inferiore dell’animo; nell’esempio morale sempre palese; e, infine, nella capacità di poter fare a meno dei castighi». Particolarmente brillante, in questa Enciclopedia, è l’insieme delle molte voci dedicate alla sfera morale o al saper vivere. Denotano una buona dose di anticonformismo (data l’epoca), di intelligente ironia e di superiorità intellettuale, perfino di disincantata lucidità, nonché una certa dose di tatticismo, tutte qualità che non mancavano a Tiziana. Basta scorrere ad esempio le voci Generosità, Ipocrisia, Lealtà, Morale, Onestà, Onore, Orgoglio, Paura, Perdono, Pettegolezzo, Pregiudizio, Prodigalità, Pun-

35 Annota Tiziana («Il Caragliese», p. 10): «Per merito di Vinciguerra, l’editore Marzocco di Firenze mi fece scrivere un testo di storia per il ginnasio inferiore. Conobbi più tardi Silvia Spallanzon [probabile errore di battitura] che mi aveva fatto da prestanome e la ringraziai. Mi disse l’imbarazzo di avere accettato delle felicitazioni che non le erano dovute». Silvia Spellanzon era figlia del giornalista antifascista (fin dal 1924) e storico del Risorgimento Cesare Spellanzon (Venezia, 1884 - Milano, 1957). 36 «Il Caragliese», p. 10: «Ugo Dèttore si era licenziato dalla Bompiani e aveva creato la “Bianchi Giovíni” che non ebbe lunga vita […]. Dèttore fece compilare in gran parte da me e da qualche altro collaboratore un’“Enciclopedia della donna”». 37 A sua volta ristampata a Bergamo, Arti Grafiche, 1949. Questa edizione comprende alcuni saggi iniziali, tra cui uno di Dèttore (La donna nella casa, nella famiglia, nella vita sociale, pp. 7-52) e uno della moglie Bianca Ugo (100 consigli pratici per l’educazione dei figli, pp. 169-203), che sono di sicuro interesse per la ‘storia delle donne’.

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tualità, Rimorso, Sincerità, Superbia, Umorismo. Ovviamente non siamo sicuri che tutte queste voci siano frutto della penna di Tiziana, ma, nella compattezza concettuale e nello stile unitario, rivelano molte delle sue doti naturali o acquisite e delle sue convinzioni profonde. Finita la guerra, Tiziana – nell’ottobre del 1945, a 34 anni – riprende l’insegnamento in un avviamento femminile (la «Cairoli», per quattro anni). Conseguita l’abilitazione nel 1949, ottiene un incarico biennale nella scuola media «Tiepolo» a Città Studi. Nel 1951-52 e 1952-53 insegna alla scuola media «Parini» maschile, una tappa importante per la sua formazione di insegnante: Ottenni la scuola media «Parini» maschile, che godeva di grande prestigio a Milano. Vi affluivano i figli delle famiglie più note che desideravano una scuola severa e selettiva. Erano pure iscritti i Martinitt 38 più dotati. Gli insegnanti avevano molta esperienza; ho imparato da loro a commentare i poemi omerici e un buon metodo per l’insegnamento del latino. 39

Nel 1954 è di ruolo alla scuola media di Mortara (40 km da Milano), la soddisfazione mitiga le fatiche ed i disagi: Mi alzavo alle cinque del mattino e con due tram raggiungevo un vagone vetusto, con panche di legno, maleodorante e poco illuminato. L’edificio della scuola media di Mortara era stato un convento, ogni aula si riscaldava con una stufa di maiolica: la sua manutenzione era affidata all’insegnante. Per fortuna i miei alunni erano più abili di me nel caricarla di legna! I ragazzi erano figli di agricoltori e la scuola era il loro punto di aggregazione. La frequentavano con piacere ed erano orgogliosi di avere un’insegnante milanese. Io con loro dimenticavo il disagio e la fatica del viaggio. Il preside era convinto che avrei fatto molte assenze, invece non mancai neppure un giorno. 40

Negli anni 1954-58 è la volta di Sesto San Giovanni (all’inizio una classe con molti ripetenti) dove insegna con occhio vigile, equilibrato, comprensivo:

38 I Martinitt sono gli orfani o fanciulli abbandonati ospiti dell’omonimo istituto che prese il nome da una delle prime ubicazioni dell’orfanatrofio nei pressi della chiesa (non più esistente) di S. Martino agli Orfani. Unitamente alle Stelline (le fanciulle orfane o abbandonate) i Martinitt furono sempre molto sostenuti dai Milanesi (anche con lasciti e donazioni). Dal 1932 in via Pitteri 56 a Milano, l’istituto (che nel 1997 si è fuso con le Stelline) si è recentemente trasferito in via Rubattino; attualmente assiste specialmente extra-comunitari. 39 «Il Caragliese», p. 11. 40 «Il Caragliese», p. 11.

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Sesto era molto politicizzata. Numerosi i comunisti, ma grande pure la schiera dei democristiani ben agguerriti. I ragazzi seguivano il credo dei genitori; però in classe erano buoni compagni e fuori giocavano a calcio senza distinzioni di partito. 41

Ma Tiziana sapeva anche valorizzare i suoi allievi, riconoscendone i meriti: [A Sesto] Avevo adottato un testo di geografia nuovo di una nota casa editrice. Non ero molto esperta in questa disciplina e alcuni alunni attenti trovarono un errore all’inizio del primo volume. Li invitai ad annotare sbagli e imperfezioni per tutti e tre gli anni e, alla fine, mandammo l’elenco all’editore. Ringraziò e si congratulò con la classe promettendo che avrebbe utilizzato la loro fatica alla prossima ristampa; a me inviò un elegante libro di geografia che, a nome degli alunni, offersi alla Biblioteca scolastica. 42

A 48 anni, nel 1959, finalmente Tiziana approda a Milano e precisamente alla scuola media «Tiepolo», ma, come ultima arrivata, è destinata ad una sezione distaccata: è la sede dei più sprovveduti. Dopo due anni viene chiamata nella sede principale, ma l’attende una classe terribile, piena di preconcetti, che mette a dura prova il suo orgoglio, ma non offusca la sua collaudata lucidità mentale: Il terzo anno [1961-62] fui chiamata in sede perché una collega aveva vinto il concorso di preside e lasciava libera la sua cattedra. L’insegnante aveva fatto un mito di se stessa e convinto gli alunni che non esistesse alcuna più colta e preparata di lei. Il mio arrivo, all’inizio del terzo anno, fu accolto malissimo; la classe era sempre in fermento. Un giorno trovai la cattedra cosparsa di riso per disprezzo. Feci ripulire, senza rivolgermi al preside perché avrebbe significato ammettere la mia sconfitta. Avevo capito che molti ragazzi si rivolgevano a lei per nulla rassegnati alla sua sostituzione. Ero però convinta che con il tempo lei sarebbe stata assorbita dai compiti della presidenza e avrebbe allontanato gli alunni. Questo avvenne pur tra molte difficoltà. Qualcuno dei contestatori alla fine dell’anno mi attestò la sua stima. 43

Ormai cinquantenne Tiziana ha le sue soddisfazioni professionali: «Il triennio 1962-1965 fu in compenso il migliore della mia carriera». La ragione sta nel fatto che gli alunni, di estrazione sociale alta o più modesta, erano tutti «motivati a conseguire un diploma o una laurea». Questa la sua ambizione. Viceversa

«Il Caragliese», pp. 11-12. «Il Caragliese», p. 12. 43 «Il Caragliese», p. 12.



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una breve parentesi (1965-66) all’istituto magistrale «Virgilio» si conclude senza grandi rimpianti per il motivo che la classe mista (per lo più femminile) non ha in genere aspirazioni intellettuali e pedagogiche: L’Istituto Magistrale Virgilio era nato in epoca fascista soltanto per i maschi, ma in una Milano industriale e commerciale, la professione di maestro non era ambita. Con gli anni fu aperto anche alle femmine che divennero prevalenti. I maschi che sceglievano le magistrali erano quasi sempre figli di immigrati, attratti dalla brevità del corso. Nella classe che mi era stata assegnata la parte migliore era un gruppo di ragazze che proveniva da una scuola privata: intendeva frequentare più tardi il Magistero. Il resto era raccogliticcio e poco qualificato. Per il futuro sembrava aspirare a un impiego in un istituto bancario o in un ente statale. Dissi loro più volte che difficilmente avrebbero trovato agli sportelli un bambino con il quale utilizzare la pedagogia che avrebbero imparato. Uno degli alunni cambiò ordine di scuola e quando lo rividi era soddisfatto della sua decisione. 44

Come si vede, Tiziana spronava i suoi allievi a dare il meglio di sé. Nel 1966-67 torna finalmente alla «Tiepolo», media femminile prima e poi maschile («Avevo maggiore esperienza con i ragazzi») e lì rimane nei successivi trienni, rinunciando ad un posto al liceo «Volta» (in rivolta) di Milano per cui aveva avuto la nomina («Mi paragonavo a una ventenne che aveva sognato un giovane marito e a sessant’anni si sarebbe dovuta sposare un anziano vedovo e malandato») e rimase «serena» coi suoi ragazzi alla «Tiepolo» fino alla pensione (10 settembre 1981), a 70 anni. Uno dei suoi ragazzi della «Tiepolo» ebbe un’idea felice, la fotografò come realmente la viveva, come la professoressa: Alla fine del terzo anno, a mia insaputa, mi fece una fotografia: alle spalle avevo la lavagna e sulla cattedra il registro aperto. Me la mandò l’anno successivo dal fratello che divenne pure mio allievo. Era molto bella. 45

La foto è stata a lungo nello studio di Tiziana ed ora troneggia di contro al frontespizio, grazie alla gentilezza dell’avv. Paolo Finzi, l’autore del ritratto. Milano, gennaio 2007



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«Il Caragliese», p. 12. «Il Caragliese», p. 13.

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TORNARE ALL’ANTICO Le lezioni sul latino di Tiziana Momigliano di Massimo Gioseffi

Tornate all’antico, e sarà un progresso. (G. Verdi a Francesco Florimo, Genova, 5 gennaio 1871)

L’istituzione, nell’ultimo decennio, delle SSIS e il diffondersi, lento e difficoltoso, ma graduale e riconosciuto finalmente anche in Italia, di una disciplina quale la «didattica del latino» hanno portato di recente alla pubblicazione di vari manuali e repertori dedicati all’insegnamento della materia, alla sua pratica, alle sue necessità 1. L’elemento che accomuna un po’ tutti questi volumi è la contrapposizione fra un metodo ‘antico’, svolto necessariamente per imitationem e in re (ossia, sul corpo vivo degli studenti), e un metodo che si auspica consapevole e scientifico, non più artigianale, rivolto in primo luogo al ‘comunicare’ e non al ‘trasmettere’, ovvero – come scrive Anna Giordano Rampioni – «al rapporto che nel processo didattico si instaura fra insegnante e alunno, focalizzando la figura di chi apprende» 2. In anacronistica controtendenza con quanto detto finora (ma, in realtà, non tanto), ripubblichiamo qui una serie di lezioni di Tiziana Momigliano, che risale ai primi anni Settanta 3.

1 Ricordo, senza pretesa di completezza, alcuni tra i più importanti strumenti di lavoro, dei quali non avrò modo di tornare a fare parola in seguito (altri ne saranno menzionati nel corso dell’intervento): la serie genovese di convegni e volumi denominati Latina Didaxis; periodici particolarmente attenti alle problematiche dell’insegnare, come «Aufidus. Rivista di scienza e didattica della cultura classica» o «Docere. Rivista di didattica delle lingue classiche»; l’italiano «Scholia», che ha un supplemento esplicitamente dedicato al tema; la raccolta di percorsi didattici a cura di D. Puliga, Percorsi della cultura latina. Per una didattica sostenibile, Roma, Carocci, 2003. Ampia rassegna bibliografica, a cura di R. Luzzi, in «BStudlat» 37 (2007), pp. 215-254. 2 A. Giordano Rampioni, Manuale per l’insegnamento del latino nella scuola del 2000. Dalla didattica alla didassi, Bologna, Pàtron, 1998, p. 14. 3 Stampate sulla rivista «La Scuola Media», fra l’ottobre del 1972 e il maggio del 1973.

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Diverse le ragioni che giustificano la scelta. Prima fra tutte, la sensazione che i manuali e i prontuari finora pubblicati si interessino soprattutto alla trasmissione della cultura e della letteratura latina, o al più della cultura attraverso la letteratura latina. Ma la scaletta di insegnamento tradizionale – che nulla vieta, e anzi sarebbe auspicabile venisse ripensata in futuro, ma che tale attualmente è e rimane – suppone che l’insegnamento della letteratura e l’approccio diretto agli autori facciano seguito a un periodo di circa due anni dedicati allo studio della lingua latina, strumento imprescindibile per quell’approccio e quella lettura 4. Impressione generale è perciò che la battaglia, se battaglia ha da essere, si combatta già, se non addirittura sostanzialmente, proprio in quei primi due anni, e che lì si debba vincerla o perderla in modo spesso irreparabile. Inutile pertanto, e forse perfino dannoso, promettere uno studio appassionante della letteratura, se in precedenza si è ucciso l’interesse dello studente. Si corre infatti il rischio di fondare l’apprendimento su un atto di fede, col pericolo che, quando si giunge all’agognato traguardo, venga solamente confermata – una volta di più! – l’idea, già fin troppo diffusa, che il latino sia materia pesante e noiosa, incapace di appagare le aspettative di chi si vede costretto a studiarlo. È dunque allo studente ginnasiale o delle classi equivalenti che si deve guardare in prima battuta, è in lui che si deve accendere l’interesse per la cultura antica, è lì che si gioca la partita per il futuro degli insegnamenti classici: particolare ben noto e sottolineato un po’ in tutti i saggi di recente pubblicazione, ma trascurato o affrontato con qualche arrendevolezza allorché dalle affermazioni di principio si passa all’esemplificazione pratica. Ecco allora una prima risposta al quesito di partenza circa la pubblicazione che qui si presenta: è difatti a chi frequenta il ginnasio o il biennio degli istituti superiori che si possono indirizzare le lezioni di Tiziana Momigliano, a suo tempo pensate per uno studente della scuola media inferiore. E, in questa prospettiva, a giustificare l’idea di riproporre tali pagine è il loro sostanziale interesse intrinseco. Com’è ovvio, a distanza di oltre trent’anni ci sono alcuni aggiustamenti da apportare, resi necessari dall’avvenuto trascorrere del tempo. È però evidente che l’autrice è sfuggita alla trappola di identificare l’esercizio sul testo con la sua traduzione (la traduzione per lei è solo un momento, importante ed essenziale, ma non esaustivo, dell’approccio al testo) e ancor più a quella di identificare gli esercizi con frasi o brani avulsi dal loro contesto e dal loro contenuto: come se fossero soltanto uno strumento linguistico – la frase portatrice di difficoltà o di una particolari-

4 Si tratta di un antico retaggio della riforma Gentile, che pure proclamava la necessità di «immergersi nel mondo classico, quale vive nei testi degli scrittori antichi, senza più preoccupazioni di astratta grammatica».



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tà – senza curarsi della (inevitabile) mancanza di logica e di comprensibilità di quanto viene presentato agli studenti. A parte qualche occasionale incertezza, l’intento della Momigliano non era (e a quella data la cosa non appariva tanto scontata) la conquista di una grammatica pura ed astratta, ma priva di vita e di interesse, né la riformulazione in latino di pensieri moderni, un procedere sterile al di là di certe sue possibili applicazioni in sede di verifica dell’apprendimento. Al contrario: l’autrice si poneva già con grande chiarezza nell’ottica di quella che oggi chiameremmo la «competenza ricettiva» della lingua latina, proponendosi cioè di osservare e descrivere i fenomeni linguistici al solo scopo di riconoscerli e di comprenderli nel momento in cui vengono reperiti nel loro contesto di appartenenza, dal quale traggono la ragione d’essere. È nota la difficoltà che subito si presenta a chi si propone un simile intento: come riuscirci con studenti ancora sprovvisti di un quadro generale di competenze? Come è possibile affrontare testi o costruire frasi ‘intelligenti’ finché si hanno a disposizione «soltanto i vocaboli della prima declinazione e quindi si può parlare solo di dee, di fanciulle, di padrone, di ancelle» 5? A questo si aggiunge, e non è difficoltà di minor conto, il problema di far arrivare gli studenti alla comprensione di un testo a priori complesso nei contenuti e incerto nei suoi riferimenti, e che alla maggior parte di loro, anzi forse alla loro totalità, apparirà estraneo, lontano, appartenente a un mondo nel quale ogni follia – se follia è il comportamento diverso dall’abituale, l’agire e il reagire a un orizzonte di pensiero che non è quello di tutti i giorni – risulta possibile, quando non addirittura legittima 6. La soluzione proposta dalla Momigliano è uno studio per gradi, che punti prima di ogni altra cosa al lessico, nella precisa convinzione che senza il possesso del vocabolario di una lingua non si possiede nessuna lingua – ma il possesso di un vocabolario significa la sua memorizzazione, la capacità di imprimere nella mente (e far imprimere nella mente) il maggior numero possibile di termini. Il che a sua volta vuol dire, nell’esercizio concreto, il non prendere mai in considerazione le parole in astratto, ma entro percorsi, accostamenti e ulteriori collegamenti che ne facilitino il ricordo. A quanto suggerito dall’autrice, altro si

5 N. Flocchini, Insegnare latino, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1999, p. 192; M.-P. Pieri, La didattica del latino. Perché e come studiare lingua e civiltà dei Romani, Roma, Carocci, 2005, p. 25. 6 La scuola, del resto, ha progressivamente eliminato una serie di cognizioni che un tempo si acquisivano fin dai suoi gradini più elementari. Non si dimentichi che la maggior parte dei liceali (qualche volta perfino degli studenti universitari) non conosce quel conglomerato di aneddoti esemplari e moraleggianti di ambito antico – forse discutibili, ma che costituivano una base di sapere comune, oggi dispersa. Da questo punto di vista, certe affermazioni della Momigliano sull’argomento suonano un po’ troppo apodittiche e sicure di sé, e probabilmente andranno riaggiustate nella viva pratica.

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dovrà certamente aggiungere: si tratti dell’indagine sistematica per radici lessicali esemplificata da Elisabetta Riganti 7, oppure della costruzione di opportune schede di lingua ipotizzata da Maria-Pace Pieri 8, non spetta a noi deciderlo. Probabilmente, dovrà essere l’una e l’altra cosa: come il testo della Momigliano non vuole proporsi quale manuale precettivo, ma solo come un’esemplificazione pratica, così – più in generale – risulta difficile essere categorici in una materia tanto fluida e da verificare giorno per giorno nella realtà della classe. Onore però al procedimento indicato: perché lo studio del lessico a partire da testi esemplari, oltre a essere più attraente e più efficace, evita un errore comune alle grammatiche normative e ai loro esercizi, lo studio cioè in primo luogo di parole disusate o arcaiche, o appartenenti ad ambiti limitati della lingua e della storia della lingua, ma rese importanti da ragioni grammaticali (i vari tussis, ravis, amussis, giustamente definiti «famigerati» da Maria-Pace Pieri) 9. È chiaro che la soluzione all’impasse potrà stare solo nel ruolo che si assume il docente all’interno della classe. Sarà il docente a dover guidare i suoi studenti: da un lato spetterà a lui compiere delle semplificazioni che non travisino i testi e non riducano neppure all’eccesso le informazioni di grammatica, dando così un’impressione falsa e, in sostanza, dannosa della complessità del latino; dall’altro, dovrà procedere per gradi, selezionando nel molto – troppo! – che ogni testo richiede per essere compreso il poco che se ne può trarre, rimandando al futuro (in una rete continua di collegamenti e ‘tenute in tensione’, di cui si farà per primo cosciente e partecipe) il molto altro che sarebbe necessario, ma che non si può pretendere di ricavare subito. Così facendo, si attiverà nei discenti un apprendimento per approssimazioni successive, capace di passare dalla scansione fideistica delle prime lezioni (ancora tutte dominate dalla fiducia nel docente che guida, quando non da un’arrendevole rinuncia a capire), a un’autonoma capacità di orientamento, acquisita per passaggi progressivi. Il che non è traguardo facile, e nemmeno sicuro: va costruito giorno per giorno, con tutti i rischi del caso. Risalire a un testo di trenta e più anni fa è interessante anche in prospettiva storica. Fu in quegli anni che si combatté la prima, decisiva battaglia circa il destino e il ruolo del latino nella scuola e nella cultura italiana 10. Fino a quel mo-

E. Riganti, Lessico latino fondamentale, Bologna, Pàtron, 1989. Op. cit., pp. 41-81. 9 Ivi, p. 17. Sul tema, vd. anche F. Marchese, La livella, il bue, la raucedine. L’insegnamento linguistico del latino, oggi, «Chichibio» 42 (2007), p. 2. 10 Relativamente numerosi, ormai, i volumi e gli articoli sulla scuola italiana e la sua evoluzione dall’unità d’Italia ad oggi. Mi limito perciò a rimandare gli interessati alla guida

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mento materia pressoché obbligatoria d’insegnamento già alla media inferiore, e tale per tradizione secolare, il latino venne ridotto dalla legge n. 1859 del 31 dicembre 1962, quella che istituì la scuola media unica 11, a materia obbligatoria per un anno, il secondo, ma come integrazione dell’italiano, e a materia facoltativa (ed autonoma) per il terzo e ultimo anno, salvo essere definitivamente cancellato con l’ulteriore riforma, sancita dalla legge n. 348 del 16 giugno 1977. Inutile agitare lo spettro del Sessantotto: la strada che portava a questa china venne imboccata ben prima di quella data. E non si intende certo mettere in discussione la liceità, forse anche la necessità, di una simile decisione. La Storia va in direzioni inarrestabili, e a poco serve lo sterile rimpianto per i tempi passati. Le scelte fatte determinarono però, come ovvia conseguenza, una drastica emarginazione della materia «latino», avvertita con particolare drammaticità soprattutto nei primi anni Settanta. Passo successivo sarà, come ho già detto, la sua definitiva cancellazione dalla scuola media inferiore, sia pure con formulazioni ipocrite, che lasciavano spazio all’agire personale del docente e stimolavano quanto meno lo studio del lessico, inteso come propedeutico e ancillare all’italiano 12. Non è detto che si sia trattato di un male: se non altro, perché l’obbligo di difendersi e di giustificarsi, dal quale la materia non ha più potuto prescindere, ha finito per costituire una ragione di forza, non di debolezza. È appunto quanto traspare dalle pagine che pubblichiamo. Di fronte alla necessità di coinvolgere un pubblico di adolescenti, l’autrice, senza perdersi in discorsi di astratta teoria, offre un esempio preclaro di come coniugare competenza e comunicazione. Siamo a monte della «psicologia cognitiva» o del concetto di «metacognizione» oggi imperanti nel discorrere pedagogico; lo siamo anche delle diverse proposte di grammatica succedutesi negli ultimi anni, dal «modello Tesnière-Happ» al più recente «metodo natura», rappresentato dalla ben nota Lingua Latina per se illustrata (vol. I, Familia Romana; vol. II, Roma aeterna) di Hans H. Ørberg 13. Nel caso della Momigliano ci troviamo in un procedere

bibliografica di A. Gaudio, La storia della scuola italiana e delle sue riforme, «Nuova secondaria» 17 (2000), pp. 55-58, e al recentissimo A. Balbo, Insegnare latino. Sentieri di ricerca per una didattica ragionevole, Novara, UTET Università, 2007, pp. 3-24. 11 E che una norma del genere fosse promulgata in data semifestiva appare sintomatico di molte cose … 12 Nel testo del legislatore, per l’esattezza, si parlava di «rafforzamento dell’educazione linguistica attraverso un più adeguato sviluppo dell’insegnamento della lingua italiana, con riferimenti alla sua origine latina e alla sua evoluzione storica»; di fatto, però, la riforma del 1977 venne intesa più o meno dovunque come la soppressione dell’insegnamento del latino nella media inferiore. 13 Ottimo riassunto, di questi e altri modelli grammaticali, nel recente e già menzionato volume di Balbo, Insegnare latino cit., pp. 55-86.

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del tutto tradizionale e in una pratica viva, da accettare e discutere, quindi, come testimonianza, non come dogma, qua e là forse anche un poco fanée, se vogliamo – e a volte perfino contestabile, come vedremo tra breve. Ma, in ogni caso, si tratta di una pratica vitale, attuale, realizzata dall’autrice mettendo in gioco tutta se stessa: ed è per questo che la proposta ha più che mai interesse e può costituire un utile spunto di riflessione. Compito del nuovo docente sarà vagliarla, adattarla, integrarla a una situazione senz’altro diversa – a cominciare dall’età degli studenti, ragazzi del biennio superiore. Oltretutto, dovendo tener conto del fatto che oggi l’insegnamento delle lingue classiche si sviluppa quando va bene su un arco di cinque, non di otto anni, e che è scomparsa ogni richiesta di una competenza che renda possibile la traduzione in latino. Quali allora, in definitiva, i meriti – e quali i limiti – di queste pagine? Fra i meriti va senz’altro annoverata l’idea, precorritrice sui tempi, che il mondo grecolatino sia «storia da insegnare in senso complesso: è storia politica, economica, giuridica, di mestieri, di arti, di opere varie» 14. S’è poi detto come la Momigliano non riduca mai la grammatica a materia pura, astratta, svincolata da un testo. Si parte sempre da una fonte, non necessariamente letteraria, ma in ogni caso da una materia viva, da una pagina che racconta, o consente di raccontare, una storia e di utilizzare il piacere per l’affabulazione, così forte negli adolescenti, come arma per penetrare nella loro curiosità. Ciò non cancella lo studio della grammatica, naturalmente, ma lo subordina alla comprensione del brano proposto e lo finalizza costantemente a quello scopo. Nel contempo, il singolo testo, il singolo brano vengono inseriti in un percorso più ampio, nel quale acquisiscono un interesse parziale ed esemplificativo, che invita a guardare oltre il passo in questione e l’immediato contesto, per cercare di cogliere il nesso, il problema che è alla base dei testi suggeriti o – a seconda dei casi – dell’opera da cui il passo in questione è ricavato. Il procedimento, articolato attraverso otto percorsi a cadenza mensile (ma altri se ne potranno sviluppare), punta perciò non alla memorizzazione di una regola, magari sottratta da qualsiasi applicazione effettiva, ma allo sviluppo di quella che oggi chiameremmo la «memoria a lungo termine». Sviluppo ottenuto facendo leva su una serie di strumenti complementari – etimologie, riferimenti visivi, testi documentari, storia locale, enfasi sulle parole che si vogliono ricordate – così da consentire la progressiva costruzione di un vocabolario e di un sistema grammaticale, secondo un procedimento realizzato per tappe e di nascosto, senza proporlo mai come

14 E. Andreoni Fontecedro, Premesse ideologiche e metodologiche per una didattica del latino, in AA.VV., Il latino e il greco nella scuola oggi. Esigenze e strumenti per la didattica, Foggia, Atlantica, 1985, pp. 3-11; cfr. anche Giordano Rampioni, op. cit., p. 20.



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fine del lavoro svolto, ma avendolo ben presente come risultato implicito di quella presentazione di dati e di situazioni che appare invece l’intento essenziale delle lezioni. Un simile comportamento non esclude ovviamente la ripetizione e la variazione del già detto, attraverso l’ampliamento delle informazioni acquisite, in attesa di una sistemazione che venga dalla pratica prima che dalla teoria, e che sia sempre corollario, non fine primario, dell’agire del docente. Perché ciò diventi possibile, ci vogliono però due presupposti di partenza: il primo, una classe disposta a farsi coinvolgere nel gioco e a seguirne lo sviluppo con continuità – ma questo è forse già un risultato, più che una premessa. Il secondo, un insegnante capace di reggere il gioco, ossia di operare una scelta fra molte e differenti possibilità, individuando termini e situazioni chiave, senza presunzione di completezza, ma con l’abilità e la competenza di capire per tempo che cosa serve e che cosa no, cosa è immediatamente utile e cosa può essere differito nel tempo – oltre che di individuare fra una miriade di testi a disposizione, tutti ugualmente interessanti o tutti ugualmente morti, a seconda di come li si presenta, quelli che potranno davvero far breccia nell’animo degli studenti. E in quanto ho detto si riconoscono i pregi e i limiti della proposta. Un pregio, senza dubbio, è la presenza costante dei testi, presentati come vivi, inseriti in una problematica che era la problematica dell’autore al momento della loro stesura, e in un tema più generale, che riguarda noi tutti, e che è la conoscenza di un ‘altro e diverso da sé’, come è il mondo latino: tema che il docente – per il tramite dei testi – viene quotidianamente costruendo. Ulteriori motivi di vanto sono poi l’importanza concessa alla realtà extralinguistica, la costante contestualizzazione dei brani presentati, il risalto dato al contenuto del singolo brano o all’opera da cui il brano è tratto, senza dimenticare per questo le annotazioni grammaticali (grammatica e stilistica qui vanno sempre di pari passo). E ancora: se la traduzione non è, a questo punto, uno scopo a sé stante, ma solo uno strumento di avvicinamento al testo – tradurre è soltanto una fase del capire – ne consegue che la Momigliano può proporre in larga misura traduzioni proprie, che servano da guida e da stimolo. Senza bisogno di grandi discorsi di principio viene così incoraggiata, prima con l’esempio, poi con l’autonomo esercizio, la capacità di decifrare (e quindi anche di tradurre) il testo, la sensibilità, anzi, al decifrare (e quindi anche al tradurre), con tutti i problemi e le difficoltà che questo comporta. Quanto alle annotazioni grammaticali, non mancano, s’è detto. Sono tuttavia ridotte all’essenziale, mai disgiunte dalla lettura degli auctores, considerate uno strumento, non uno scopo autonomo: dal caso specifico si passa perciò con naturalezza alla sistemazione dei molti casi possibili, e mai il contrario. Nella costruzione che si viene così a ottenere, privilegiati risultano declinazioni e lessico, anche se non fanno difetto le rimanenti nozioni, morfologia e sintassi in primis: sfoltite però, ridotte a casi reali, a quanto risulta frequenzialmente importante. E anche in questo, va aggiunto, 27

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l’autrice gioca in anticipo sui tempi (penso a quella che è stata, qualche anno più tardi, la «didattica breve»). Non basta: la Momigliano, s’è ribadito più volte, propone solo un’esemplificazione. Nelle scelte operate, tutte di pregio, ma tutte a loro volta modificabili, va messa in risalto soprattutto l’importanza concessa ai Realien, che nelle sue pagine davvero convivono con l’apprendimento della lingua, gli uni essendo naturale e indispensabile supporto dell’altra, e viceversa: in un procedimento dove lingua e contenuto hanno pari dignità e continua possibilità di dialogo, anche se non identica priorità nella costruzione dei percorsi. A questo riguardo, segnalo la parte non indifferente concessa all’epigrafia, di nuovo in anticipo sui tempi 15: non solo perché le epigrafi offrono, a volte, un latino sintatticamente semplificato, e dunque in teoria più accessibile agli studenti, ma anche perché epigrafi (latine, o in latino) si trovano, in Italia, pressoché dovunque, il che facilita la possibilità di collegare lo studio di una lingua morta con l’ambiente entro il quale gli adolescenti vivono e si muovono. E ancora: le epigrafi, se opportunamente scelte e presentate, offrono una testimonianza di vita vissuta, testimonianza diretta, o quantomeno diversamente filtrata dalle convenzioni rispetto alla letteratura. E anche questo può essere un mezzo efficace per suscitare l’interesse dei giovani, alieni in genere da tutto ciò che sappia di pagina scritta, ma non da quanto profuma di vita reale. In un simile edificio ci sono anche delle crepe, se non proprio delle vere inesattezze. Ne segnalo qualcuna: ad esempio, non sempre la costruzione proposta è rigorosa, i pronomi – per fare un caso specifico – appaiono utilizzati prima di essere spiegati, senza che l’autrice fornisca indicazioni su quale sia il comportamento da adottare in simili casi (il docente traduce e basta, oppure anticipa e gioca poi di rimessa? C’è semplicemente un ordine da ripensare, o che altro?). Inoltre, ed è questa forse la pecca maggiore, i testi prescelti sono spesso semplificati e riadattati. Procedimento inevitabile, s’è visto, dato il pubblico al quale l’opera si rivolge, ma pur sempre spiacevole – perfino a constatare che nella maggioranza dei casi si tratta di una riscrittura che riguarda solo alcuni elementi accessori, ritenuti troppo difficili o divaganti. Ho però l’impressione che, anche così, i brani suggeriti siano più complicati di quanto non sia possibile proporre oggi in classe: l’autrice immagina una scolaresca attenta e disciplinata, in grado di ricordare e di collegare; classe che, se esiste, andrà costruita, senza darla per scontata. E in questo il ruolo dell’insegnante dovrà essere forte, molto più forte di quello che, probabilmente, ci si prospettava all’inizio degli anni Settanta. In ogni caso, ai testi prescelti vanno riconosciute alcune doti fondamentali, come

15 O. Tappi, L’insegnamento del latino. I testi latini e la loro lingua nell’educazione moderna, Torino, Paravia scriptorium, 2000, p. 49.



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la chiarezza, la linearità, la complessiva comprensibilità – il che li rende adatti perlomeno a una quinta ginnasiale o a classi equivalenti. Nessuno dei tagli proposti (e delle parziali riscritture, limitate in genere alla necessità di esplicitare soggetti sottintesi, o ai quali è fatta solo una vaga allusione) 16 decontestualizza realmente la pagina. Se è vero che il latino così ottenuto è un latino d’autore, pur senza esserlo del tutto, va aggiunto che la Momigliano, con somma acribia, distingue sempre i diversi casi, specificando ogni volta l’avvenuto intervento: cosa che non si può dire succeda nella maggior parte delle grammatiche e degli eserciziari attualmente in uso, e a maggior ragione non si poteva dirlo a quel tempo. È poi anche vero che mai si realizza quel ‘latino-che-non-c’è’ tipico, di norma, di analoghi volumi, il latino delle «fanciulle all’ombra della rosa», come è stato spiritosamente chiamato. E nemmeno si cade nell’errore, così comune nei volumi circolanti nelle nostre scuole, di far tradurre frasi che, avulse dal loro contesto d’origine, non significano nulla, o sono ambigue, o incomprensibili ai più, e certo lo sono agli studenti che ne ignorano – ed è normale che ne ignorino – il contesto, la provenienza, il valore complessivo: a rischio di insegnare, quando va bene, che tradurre sia cosa diversa dal capire, e che un testo ‘tradotto’ ma non capito si possa dire davvero tradotto … Infine: alcuni degli esercizi proposti sono discutibili, e si avvertono anzi – il che era forse inevitabile, data l’epoca e la formazione dell’autrice – talune sopravvivenze di un atteggiamento non solamente ricettivo nei confronti del latino. Non serve invece ripetere che, se è utile, e a volte perfino divertente, studiare una lingua morta che vive nei testi 17, viceversa è dannoso voler insegnare il latino come una lingua artificialmente viva, quale non è e non è giusto farla apparire. Tanto più che se c’è una giustificazione allo studio, ancor oggi, di questa materia, questa giustificazione sta proprio nella sua lontananza, nel suo proporci qualcosa di diverso (ma non troppo diverso da non poterci ritrovare in esso!) da quello cui siamo abituati – come struttura e come contenuti 18. Per dirla con una celebre formula di Eugenio Garin, il latino educa «proprio in quanto lingua morta» 19. E non c’è ragione perché le cose debbano stare diversamente da così.

16 Ma, a volte, anche allo spostamento di termini all’interno della frase per rendere più chiaro il costrutto, o alla semplificazione di strutture sintattiche ritenute troppo complesse. 17 O meglio: una lingua, quella dei testi a noi noti, che non è mai stata una lingua davvero ‘viva’, e che non è mai esistita, salvo che nei testi a noi noti … 18 Cfr. l’intervista rilasciata da chi scrive ad A. De Palma, in «Chichibio» 41 (2007), p. 3; oppure le diverse opinioni raccolte alla pagina internet «Quale latino per la scuola del terzo millennio?», a cura di R. Carnero, pubblicata nel febbraio 2007 sul sito di «Treccani scuola» (www.treccani.it/site/Scuola/nellascuola/area_lingua_letteratura/archivio/latino/index.htm). 19 E. Garin, L’educazione in Europa (1400-1600), Roma, Laterza, 1957, p. 281; nella stessa prospettiva (pur riferendosi ad altro), F. Fortini, Poetica in nuce. 1962, in L’ospite

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Come si vede, a conti fatti è la parte degli esercizi a sembrare, in generale, più discutibile; ma è proprio quella che già in partenza si sa che dovrà essere rifatta ex novo da ciascun insegnante, sulla base di quanto il modello gli suggerisce e l’esperienza gli consiglia – nonché della scolaresca che si troverà, volta per volta, a fronteggiare. Del resto, che un testo di questo tipo sia da mettere continuamente alla prova nella pratica quotidiana dell’insegnamento è un dato che risulta ovvio, una considerazione esplicita fin dalle affermazioni preliminari della Momigliano. Lo strumento per farlo ora c’è: ed è questa la scommessa sulla quale puntare.

ingrato primo (ora in Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori, 2003, p. 963): «Le forme mor­te, purché ben morte, sono da preferirsi alle innovazioni».

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Premessa

metodologica

premessa metodologica

Il termine «facoltativo» crea spesso un rapporto difficile fra l’insegnante e gli alunni che si sono iscritti al corso di latino nel terzo anno della scuola media. Vi è da un lato l’insegnante che, dai ragazzi, in virtù della scelta che essi stessi hanno operato, tende a esigere molto, dall’altro vi sono i ragazzi che, avendo deciso di loro volontà la frequenza, si sentono autorizzati a graduare l’impegno e magari, anche nel corso dell’anno, a lasciar cadere l’interesse, quando insorgano le prime difficoltà. Ogni insegnante sa quanto sia abituale fra gli alunni che sono presenti alle lezioni di latino il discutere se al liceo scientifico e all’istituto magistrale lo studio del latino realmente ricominci da capo, se con tre mesi di ricupero estivo si possa sostenere nella sessione autunnale l’esame obbligatorio per adire al classico. E nel comodo rifugio di rimandare ad altri tempi e di trovare altre persone che nel futuro insegnino loro ciò che nel presente non stanno imparando, si giunge al termine dell’anno scolastico. Ora, come è possibile fare in modo che le ore destinate allo studio del latino non siano per molti alunni un ozio più o meno larvato? Noi vogliamo tentare anzitutto sin dalla prima lezione di accogliere con gioia i ragazzi che vengono ad ascoltare le nostre lezioni. Proprio perché il latino è una disciplina facoltativa, l’entusiasmo di chi insegna e di chi impara può essere più genuino e creare una piacevole atmosfera di libertà. Chi crede utile mantenere viva la tradizione del mondo classico e della sua lingua deve essere indotto a desiderare una nutrita frequenza di alunni durante le ore di latino. Soltanto così le nozioni impartite l’anno precedente acquistano una prospettiva di iniziazione alla conoscenza di una cultura che è al tempo stesso conoscenza del nostro passato e del nostro presente. Ma, per stabilire una intesa che sia duratura, forse occorre che noi dimentichiamo la sistematicità delle nozioni a cui ci avevano costretti, quando eravamo studenti e, trascurando di pretendere che gli alunni ci snocciolino l’una dopo l’altra le eccezioni, ricordiamo piuttosto come, anche in quei tempi lontani, noi abbiamo apprezzato taluni professori che, durante le letture di un testo qualsiasi di Cicerone o di Seneca, di Orazio o di Marziale, ci facevano entrare nel vivo delle istituzioni politiche, civili o religiose dei Romani. Spesso essi si soffermavano su una espressione, su un aggettivo o magari anche su un verbo 35

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che più era aderente all’indole del latino e in questa analisi ci insegnavano a cogliere l’energia della lingua stessa. Allora soltanto, nella traduzione dei testi, l’uso degli astratti, i concetti generici e gli specifici, la sistemazione delle parole e dei membri del periodo non erano più semplici rompicapo, ma diventavano sussidio prezioso per riuscire a interpretare un autore. Cerchiamo dunque pure noi, sin dall’inizio, di suscitare l’interesse dei ragazzi, onde impedire la loro fuga anche solo mentale: non esigiamo troppe regole e dedichiamo invece una gran parte del tempo disponibile alla lettura dei testi. Li leggeremo e li tradurremo insieme ed essi costituiranno sempre il punto di partenza per ogni nostro discorso. Se i ragazzi impareranno a riconoscere l’espressione più efficace e più adatta per sottolineare una situazione o per manifestare un sentimento, se essi si abitueranno a rilevare come spesso un verbo o un sostantivo traggano la loro forza e la loro origine dai modi stessi della vita romana (per esempio i fenomeni naturali, la coltivazione dei campi, le condizioni del corpo umano), essi si sentiranno maggiormente partecipi di questa cultura e saranno attratti a rilevare l’uso delle più frequenti metafore. Poi, nelle letture fatte in classe e a casa, completeranno questo studio lessicale e magari esamineranno espressioni analoghe della lingua italiana per vedere se esse, trasferite e conservate sino ai nostri giorni, abbiano mantenuto uguale vigore. Noi in questo modo accosteremo l’alunno al testo e sarà poi il testo stesso che gli darà la coniugazione esatta del verbo, il caso che il verbo regge, nonché la desinenza del nome o del pronome all’ablativo o all’accusativo richiesti per completare quella determinata struttura. Avremo così creato anche le premesse per uno studio metodico della morfologia e della sintassi.

Piano di lavoro Qui, quale esempio per un piano di lavoro annuale, proponiamo otto argomenti che costituiranno il punto di partenza per la ricerca dei modi di espressione. Essi sono: 1. La semplicità dei costumi romani nei tempi più antichi della repubblica. 2. Le magistrature, i comizi e le elezioni. 3. La vita militare e la guerra durante la repubblica. 4. Le vie di comunicazione: le strade e i porti. 5. La vita economica di Roma: il commercio e l’industria. 6. I ragazzi e la loro educazione presso i Romani durante la repubblica e sotto l’impero. 7. I vari generi di spettacoli. 8. La concezione della morte. I riti e i monumenti funebri. 36

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La scelta è stata originata dal desiderio di offrire aspetti essenziali della vita pubblica e di quella privata. Le testimonianze saranno prese sia dagli autori di prosa e di poesia sia dalle epigrafi. Queste ultime sono documenti molto validi per la conoscenza di avvenimenti e consuetudini ed è bene che gli alunni ne facciano oggetto di lettura. Pensiamo inoltre che in tutto il territorio italiano, persino nei paesi più sperduti, si trovino disseminate lapidi romane con iscrizioni di vario genere e la loro presenza potrebbe essere utilizzata per rendere più efficace lo studio di questa civiltà e della sua lingua e per ricollegare la storia della regione in cui si trova la scuola a quella dei lontani progenitori latini. Nulla è più interessante dei documenti della romanità scoperti nelle province. Noi ci ripromettiamo, nel corso di queste lezioni, di offrirne qualche esempio, per invitare i colleghi a ricercare nei musei cittadini, nelle pareti delle chiese o degli edifici, ove talvolta sono murate, le eventuali iscrizioni scoperte nelle località in cui insegnano.

Metodo di lavoro All’inizio daremo dunque per ogni argomento due o tre brevi testi latini; essi saranno semplificati con opportuni tagli per renderli accessibili alle capacità dei nostri alunni, ma si cercherà di mantenere intatta la forza espressiva e il ritmo che guida il periodare latino. Dallo spunto offerto dai brani proposti, la conversazione si allargherà quindi ad abbracciare altri aspetti riguardanti lo stesso argomento e gli alunni saranno chiamati a concorrervi con il ricordo delle nozioni di storia apprese nel primo anno e che riguardavano i modi di vivere, le credenze, le istituzioni e le tappe della conquista di Roma. Per quanto riguarda la morfologia elementare e le nozioni di sintassi, di cui è fatto cenno nelle disposizioni ministeriali, la conoscenza degli elementi della proposizione e del periodo dovrebbe scaturire dalle stesse letture dei brani proposti e di altri che potranno essere offerti agli alunni nel corso della lezione. Nel tradurre insieme con gli alunni, faremo prima la verifica delle nozioni acquisite l’anno precedente e nello stesso tempo inizieremo a far rilevare nelle strutture dei brani letti l’uso dei vari pronomi, dei gradi degli aggettivi, dei verbi attivi e passivi, la funzione delle congiunzioni che reggono le proposizioni secondarie, l’importanza degli avverbi per la coloritura dei concetti. Dopo aver trovato alcune volte ripetuto un pronome, un aggettivo, un nome declinato in vari casi, oppure una forma verbale diversificata secondo i tempi e le persone, si potrà benissimo richiedere al ragazzo che completi la declinazione o coniughi il tempo del verbo in tutte le sue persone. Uguale metodo sarà pure usato per quegli elementi di sintassi del periodo che formano il corredo abituale di regole nello studio del latino nella scuola media. 37

premessa metodologica

Dall’esame delle strutture riscontrate nel brano proposto si passerà a suggerire altre strutture analoghe. Quindi a un certo punto gli alunni stessi saranno in grado di dare una certa sistemazione alle nozioni apprese. Quale prova per saggiare il loro grado di cognizioni, vi saranno alcune brevi traduzioni di periodi in lingua italiana da rendere in latino. Essi riguarderanno gli argomenti di vita romana che sono stati oggetto di ciascuna trattazione e vi si potranno usare strutture analoghe a quelle che sono state oggetto di esame nei testi di latino.

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Prima lezione La semplicità

dei costumi romani nei tempi più antichi della repubblica

I brevi testi, che di volta in volta presenteremo all’inizio di ogni nostra proposta didattica, ci serviranno per effettuare il piano del nostro lavoro mensile. Dopo una buona lettura, che sottolinei il ritmo insito nel pe­rio­ dare latino, si procederà a tradurli in collaborazione con i ragazzi. L’analisi stessa del contenuto servirà come spunto per informare sui mo­ di di vita della società romana. Noi diamo soltanto un’ipotesi di discorso: so­no gli allievi stessi solitamente che, con le loro esigenze, indirizzano la nostra lezione.

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la semplicità dei costumi romani nei tempi più antichi della repubblica

L. Quinctius Cincinnatus, omnium consensu, dictator creatus est. Ille, spes uni‑ ca imperii populi Romani, trans Tiberim agrum colebat. Ibi legati eum operi agresti intentum rogaverunt ut togatus mandata senatus audiret. Ille togam pro‑ pere e tugurio proferre uxorem Raciliam iubet. Postquam, absterso sudore, toga velatus processit, dictatorem eum legati gra‑ tulantes consalutant, in urbem vocant, terrorem in exercitu exponunt. Navis Quinctio publice parata est, qua Tiberim transvectus est. Populi frequentia sti‑ patus, deductus est domum. Rid. da Livio, Ab Urbe condita III 26

… Curius parvo quae legerat horto ipse focis brevibus ponebat holuscula … … Sicci terga suis, rara pendentia crate, moris erat quondam festis servare diebus et natalicium cognatis ponere lardum accedente nova, si quam dabat hostia, carne. Cognatorum aliquis, titulo ter consulis atque castrorum imperiis et dictatoris honore functus, ad has epulas solito maturius ibat erectum domito referens a monte ligonem.

Giovenale, Saturae XI 78-79; 82-89

Vidi villam Scipionis extructam lapide quadrato, murum circumdatum silvae, cisternam aedificiis ac viridibus subditam, balneolum angustum, tenebricosum ex consuetudine antiqua. In hoc angulo ille Carthaginis horror abluebat corpus laboribus rusticis fessum. Se enim exercebat opere atque terram, ut mos fuit antiquis, ipse sub­ige­bat. Sub hoc ille tecto tam sordido stetit, hoc pavimentum tam vile illum sustinuit. Rid. da Seneca, Epistulae ad Lucilium XI 86, 4-5

Iuppiter angusta vix totus stabat in aede, inque Iovis dextra fictile fulmen erat. Frondibus ornabant, quae nunc Capitolia gemmis, pascebatque suas ipse senator oves. Ovidio, Fasti I 201-204

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Lucio Quinzio Cincinnato venne creato dittatore all’unanimità. Egli, unica spe­ ranza per l’imperium del popolo romano, stava coltivando il campo oltre il Tevere. A lui, intento nel lavoro agreste, i legati ivi chiesero che, indossata la toga, ascoltasse le disposizioni del senato. Cincinnato prega la moglie Racilia di portargli in fretta dalla capanna la toga. Dopo che, asciugatosi il sudore, Cincinnato l’ebbe indossata, e si fu fatto avanti, i legati, congratulandosi con lui, lo salutano dittatore, lo invitano a Roma, gli dicono del terrore che sgomenta l’esercito. D’ordine del senato una barca fu preparata per Quinzio, con cui traghettò il Tevere. Accolto da una gran folla di popolo, venne condotto a casa. […] Curio, sul suo modesto focolare, cuoceva gli ortaggi che lui stesso aveva colto nel piccolo orto […] […] Per i giorni di festa era costume serbare, pendenti da radi graticci, i lombi di maiale affumicato e ai parenti, per il giorno natalizio, imbandire del lardo, a cui si aggiungeva la carne fresca, se mai ne dava un po’ la vittima sacrificata. E alcuno dei parenti, che pur aveva rivestito per ben tre volte la carica di console, di supremo comandante o di dittatore, accorreva puntuale al convito, portando ancora ritta sull’omero la vanga, con cui aveva dissodato le alture.

Ho visto la villa di Scipione, costruita di pietre squadrate; un muro è messo in­torno al bosco, la cisterna scompare in mezzo alle costruzioni e al verde, il ba­ gno si presenta minuscolo, buio, come era costume a quel tempo. In quell’umile recesso, il terrore di Cartagine immergeva il suo corpo, stanco dalle fatiche dei campi. Egli infatti soleva mantenersi in attività e, secondo l’usanza antica, coltivava di sua mano la terra. Sotto questo tetto tanto povero, Scipione visse; questo pavimento tanto vile portò la sua grande persona. A stento tutto Giove stava in piedi nel piccolo tempio e nella destra portava un fulmine di creta. Si adornava di fronde quel Campidoglio che adesso splende di gemme e i senatori stessi pascevano il gregge.

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Gli scrittori latini di ogni epoca, tentando di spiegare il sorgere del grande impero con Roma capitale, la sua espansione nella penisola e più tardi nel mondo, trovarono concordi la soluzione del problema nelle qualità morali dei Romani stessi e nella eccellenza delle loro istituzioni. Ora è indubbio che le cause del successo di Roma sono più complesse e hanno origini più profonde: la critica moderna ha sfatato gran parte di questa leggenda. Tuttavia, poiché la tradizione storica e letteraria romana ha sempre considerato la grandezza e la potenza di Roma come un premio concesso dagli dèi ai suoi cittadini per ricompensarli delle loro virtù, noi, mentre leggiamo gli scritti di Livio, di Seneca, di Ovidio e di Giovenale qui sopra citati, rinunciamo per un istante a vedere con occhio critico quanto ci è offerto da questi testi e accettiamo come veritiera la rappresentazione forse un po’ retorica, ma viva e pregnante dei costumi dei padri che venne indicata dai Romani stessi come origine e causa del loro splendore. L’accettazione di questa tradizione, senza contestarne né sostenerne l’au­ torità, è anche l’unico modo per godere quella commozione che è alla base di ogni racconto. Il brano di Livio che noi proponiamo per primo è assai noto. Riguarda Cin­ cinnato e la sua nomina a dittatore. Di proposito abbiamo fatto questa scelta perché i ragazzi, che conoscono la leggenda, non avendo la preoccupazione di capire che cosa si stia raccontando, possano essere più liberi per cogliere l’atteggiarsi dell’espressione latina. Faremo anzitutto rilevare come i fatti siano narrati con estrema concisione, senza commenti. Durante i primi tempi della repubblica i Romani erano continuamente in guerra con i popoli che abitavano sulle alture circostanti. Fra i nemici più acerrimi erano gli Equi che, in questa occasione, erano riusciti ad accerchiare gli accampamenti romani e a mettere in pericolo Roma stessa. Come sempre, in momenti di difficoltà i Romani sopprimono il consolato ed eleggono un dittatore, Lucio Quinzio Cincinnato. La notizia della nomina viene portata da due legati al prescelto che sta lavorando il suo campo, posto sulla riva opposta del Tevere. I legati, prima di conferire con lui, gli chiedono di indossare la toga, poi, comunicata la decisione del senato, lo conducono con loro in città, attraversando il fiume su una barca traghetto. Vi è una grande laconicità nel racconto di Livio, ma in questa stringatezza è insito il pensiero di offrire un modello di vita esemplare, ma non inconsueto dei Romani antichi. Cincinnato, come tutti i suoi concittadini, era un agricol­ tore e, quando era libero dalla guerra e dalle occupazioni di stato, coltivava il proprio campo e portava al pascolo le sue greggi. La difesa della patria era però il sommo dovere di ciascun Romano, quindi, al primo richiamo, ognuno abbandonava le proprie occupazioni, indossava le armi e dava tutto se stesso per la vittoria. 42

Fig. 1. Pianta e ricostruzione di casa romana del III secolo a.C.

Costruita in pietra o mattoni uniti con malta, la casa romana, a un solo piano, aveva vari ambienti distribuiti intorno a un cortiletto. Nelle più antiche case l’ornamentazione interna è ancora povera; tutto è concepito in funzione delle necessità pratiche della vita domestica. La casa romana conserverà a lungo questo aspetto di ambiente chiuso e appartato che riflette assai bene il carattere individualistico e il culto della famiglia della prima società romana.

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La dignità di cittadino libero non veniva meno, anche se la vita di ogni gior­ no trascorreva in umili occupazioni, ma la toga, indossata da Cincinnato prima di aprire il discorso con i rappresentanti ufficiali della repubblica, è un indizio molto significativo per penetrare nell’intimo del mondo romano. La toga era infatti il mantello che indossavano i cittadini aventi pieni diritti, era il simbolo della dignità dell’uomo politico e della superiorità del popolo nato all’impero. Virgilio infatti scrive nell’Eneide (libro I 282): Romanos rerum dominos, gen‑ temque togatam. Di questo indumento tanto dignitoso e bello, quanto poco pratico, i Romani si sbarazzavano appena si trovavano in famiglia e lontano dal mondo ufficiale, ma, per esercitare un pubblico ufficio, esso era di rito; di qui la richiesta dei messaggeri a Cincinnato, perché indossi la toga per ascoltare le loro parole. Uguale semplicità di costumi è rappresentata dai pochi versi di Giovenale, che noi abbiamo proposto. Anche qui il personaggio che si porta ad esempio è piuttosto noto. Si tratta di Curio Dentato che venne sorpreso dagli ambasciatori sanniti venuti a proporre la pace, mentre stava mangiando dei legumi in una scodella di legno. A quei legati che erano venuti carichi di doni, pare che egli abbia risposto che preferiva comandare a chi possedeva, piuttosto che posse­ dere egli stesso. E appunto per sottolineare quanto modeste fossero le esigen­ ze di vita di questo personaggio, Giovenale lo rappresenta avvezzo a prepa­ rare egli stesso la sua parca cena: Parvo quae legerat horto ipse focis brevibus ponebat holuscula, in cui desideriamo soprattutto mettere in evidenza quel parvo che dà inizio al periodo proprio per sottolineare la frugalità di questo personaggio che coglieva egli stesso nell’orto i prodotti e li poneva a cuocere sul focolare. Notiamo pure di passaggio l’espressione focis brevibus che vuol intendere che una piccola fiamma era sufficiente per la cottura di così vile cibo, ma dalla fiamma, per metonimia, l’aggettivo viene trasposto al focolare stesso che diventa «piccolo» per dare un ulteriore tocco al quadro della vita familiare di Curio Dentato. Curio Dentato è passato alla leggenda forse soltanto perché i Sanniti sono entrati nella sua casa mentre egli stava consumando il suo modesto pasto. Il poeta Giovenale, quasi a sostenere che la stessa frugalità informava la vita di tutti i Romani antichi, anche i più illustri, si affretta pochi versi dopo a ricor­ dare che la carne compariva sui loro deschi soltanto nei giorni festivi oppure per solennizzare il compleanno di qualche familiare. Era per lo più quella che avanzava dai sacrifici che venivano fatti agli dèi, in tali occasioni. A quelle riunioni di congiunti, venivano puntuali alla mensa anche i membri che nello stato avevano raggiunto le più alte cariche ed erano stati acclamati trionfatori sui campi di battaglia. E poiché, quando la patria non esigeva il loro contribu­ to, essi, come Cincinnato o come Curio Dentato, solevano trascorrere la loro giornata nei campi, non disdegnavano di presentarsi al banchetto, ancora por­ 44

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tando sull’omero la vanga che era loro servita per dissodare la terra sulle ripide alture circostanti. Il terzo brano, di Seneca, descrive la casetta di Scipione l’Africano a Literno (Liternum) 1, dove il vincitore di Zama trascorse gli ultimi anni della sua vita e dove pare che sia stato sepolto. L’abitazione era costruita di pietra squadrata, un muro di cinta ne definiva i confini e l’acqua di una cisterna, spesso fangosa, alimentava il piccolo e oscuro bagno, in cui Scipione astergeva il sudore del proprio corpo, quando ritornava stanco dalle fatiche dei campi. Dunque anco­ ra, dopo la Seconda guerra punica, le abitudini dei Romani si erano conservate modeste. Anche se ci si era un po’ allontanati dalla primitiva capanna circolare con il tetto di paglia che aveva costituito la prima abitazione romana, l’aspetto appa­ riva assai disadorno. L’esterno, fatto di pietre, in genere non aveva finestre, ma presentava, come unica apertura, la porta d’ingresso, L’interno era costituito da un atrio, munito di un foro centrale, destinato a raccogliere l’acqua piovana della cisterna. Intorno era un numero più o meno grande di stanzette destinate ai vari usi (Fig. 1). Né più lussuosi erano i templi degli dèi, come ci testimonia l’ultimo do­ cumento, offerto da Ovidio, nei Fasti, in cui celebra i motivi delle ricorrenze festive. Egli ricorda che la statua di Giove stava a stento nel tempio situato in Campidoglio e che i fulmini, attributo della maestà e della potenza del Dio, così come il resto della statua, erano soltanto di umile creta. Non senza un senso di nostalgia, il poeta, che scriveva ai tempi di Augusto, rammenta come là tutto intorno ove egli vedeva statue preziose, marmi e gemme, un tempo, agli albori della repubblica, crescessero verdi prati e i senatori non disdegnas­ sero di pascere le greggi. In questa pace agreste si era formata la grandezza di Roma. Fu soltanto nell’età successiva alla morte di Silla che si diede l’avvio in Roma a un’architettura più solida e più artistica che richiese l’uso dei marmi sia come materiale di costruzione, sia per fattura di architravi, fregi, statue, co­ lonne ecc. Prima di quel tempo l’umile arenaria oppure il legno servivano ad abbellire sia i templi sia le costruzioni private.

1 Cfr. A. de Franciscis, Enciclopedia dell’Arte Antica, s.v. Liternum, IV (1961), p. 661 (G.A.).

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la semplicità dei costumi romani nei tempi più antichi della repubblica

Leggiamo insieme Dopo aver illustrato ai ragazzi gli aspetti più evidenti della civiltà romana an­ tica, contenuti nei brani citati, inizieremo un’analisi un po’ particolareggiata del lessico di ciascun testo, sia per trarne le forme più consuete del dire latino, sia per dedurne norme grammaticali e sintattiche. La lettura dei testi, opportu­ namente guidata, costituisce infatti il modo più semplice e più immediato per accostare gli allievi alle strutture linguistiche. Essa offre anche il vantaggio di mantenere un’impronta unitaria alla lezione: il discorso grammaticale si pre­ senta infatti come la prosecuzione e il completamento del discorso sulla civiltà. L’insegnante partirà dall’interesse suscitato negli allievi per gli usi e le consue­ tudini romane per inserire in questo contesto i costrutti e le espressioni che via via si presenteranno. Le nostre sono ovviamente soltanto ipotesi di lavoro: ogni insegnante deve senza dubbio tener conto delle capacità intellettuali dei suoi alunni e della pre­ parazione che essi hanno avuto nell’anno precedente. Nel racconto di Livio, troveremo nelle prime parole già una espressione inte­ ressante: Q. Cincinnatus dictator creatus est. Diremo ai ragazzi che è un tipico esempio di linguaggio usato nella vita politica, per annunciare la nomina dei consoli, dei dittatori o di altri magistrati. Il verbo creare, che qui è usato al perfetto passivo, poteva anche essere sostituito con il verbo legere che nel suo significato usuale corrisponde al nostro italiano «scegliere». Possiamo qui già anticipare alla scolaresca che i tempi composti dei passivi si coniugano, in latino, usando una voce del verbo esse accompagnata dal participio perfetto che si declina come un aggettivo della prima classe. Se infatti dovessimo dire che Pompeo e Crasso vennero eletti consoli, scriveremmo: Cn. Pompeius et L. Crassus consules creati sunt. Una espressione consimile, ma usata in forma attiva, la troviamo più sotto, nel medesimo brano: Dictatorem eum legati consalutant. Il verbo consalutare è pure esso del linguaggio ufficiale e intende salutare un magistrato con il ti­ tolo che gli compete per la carica che gli è stata concessa. Naturalmente esso regge il doppio accusativo; uno determina la persona che viene salutata, l’altro la carica conferita. Se volessimo volgere al passivo la proposizione suddetta, ne ricaveremmo la seguente: Is salutatus est dictator a legatis. I due accusativi al passivo sono diventati due nominativi e il costrutto è diventato uguale a quello in cui si dice che Cincinnato è eletto dittatore. Ed ecco ora un’altra locuzione che sempre fa parte del linguaggio politico: rogaverunt ut togatus mandata senatus audiret. Gli ambasciatori, arrivati nel campo, vedono Cincinnato che sta lavorando, lo pregano di indossare la toga 46

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e di ascoltare il messaggio del senato. Ora togatus è appunto l’appellativo che contraddistingue il Romano, quando vive la sua esistenza di cittadino e come tale Cincinnato è pregato di essere, onde ascoltare le decisioni, mandata, di quell’autorevole consesso che era l’assemblea dei senatori. Ci soffermeremo anche sul fatto che tutti i verbi indicanti «chiedere, domandare, pregare» una persona per ottenere o sapere qualcosa richiedono in latino una proposizione che si inizia con la congiunzione ut e usa il verbo al modo congiuntivo. In questo caso, siccome il verbo della reggente era di tempo passato, il tempo usato nella dipendente sarà l’imperfetto. Potremo anche far vedere agli alunni che questo tempo è di assai facile coniugazione. Se la proposizione è invece negativa, anziché ut, verrà usato ne. Altro importante costrutto è senza dubbio il seguente: iubet uxorem Ra‑ ciliam togam e tugurio proferre che ci insegna l’uso del verbo iubere, uno dei più usati sia per la vita militare sia per quella civile. Iubere corrisponde al nostro italiano «comandare, impartire disposizioni, ordini» a una persona e in questa accezione noi lo troviamo là ove si parla di generali che prescri­ vono ai loro soldati di fare o non fare determinate azioni. Ricordiamo per esempio la ben nota espressione di Cesare, allorché ordina ai suoi soldati di costruire un ponte: Caesar iussit milites pontem facere. Tuttavia qui è più probabile che Livio intendesse usare il verbo nella sua seconda accezione, cioè nel significato di «invitare a fare» una determinata azione. In questo caso iubeo assume una intonazione assai più gentile e come tale veniva persino usato per invitare un amico a fermarsi a cena. A ogni modo, sia che esso venga usato per comandare o per esprimere il desiderio che un’azione venga compiuta, questo verbo regge sempre l’accusativo della persona a cui ci si rivolge e l’infinito presente per l’azione che deve essere compiuta. Infatti qui Cincinnato invita la moglie ad andargli a prendere la toga nella capanna. Il verbo proferre è appunto l’infinito presente che indica l’azione che la moglie Racilia compirà. Raccogliamo ancora e facciamo notare agli alunni alcune espressioni che venivano solitamente usate per indicare il lavoro nei campi. La più consueta era quella usata da Livio a proposito di Cincinnato: agrum colebat che cor­ risponde al nostro «coltivava il campo». Si può, a questo punto, inserire una breve annotazione etimologica: colere significa «curare, attendere alla cura di», per cose sia materiali sia spirituali, per manifestare il proprio rispetto a una persona, a una divinità, a una attività: deum Mercurium colere, Romuli memo‑ riam colere, litteras et artes colere sono esempi che dimostrano come la nostra parola «cultura» ritrovi la sua origine appunto nel doppio significato del verbo colere. Più simile all’italiano è l’altra espressione operi agresti intentum, «intento al lavoro agricolo». 47

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Ed ecco ora alcuni esempi di esercizi che potranno essere assegnati ai ragazzi, come completamento dell’esame del testo, sempre tenendo conto del grado di preparazione della scolaresca. ·

Raggruppare i sostantivi che si trovano nel brano secondo le declinazioni e determinare in quale caso, genere e numero essi siano stati usati.

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Coniugare in tutte le persone il presente dei verbi voco, iubeo, expono, colo, rogo di cui già si sono trovate alcune forme nel brano stesso.

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Copiare gli avverbi, scrivere accanto la traduzione italiana, dividendoli secondo che essi siano di modo, di tempo o di luogo.

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Raccogliere tutte le espressioni di luogo, che sono piuttosto numerose, e catalogarle secondo che esse significhino stato in luogo, moto da luogo ecc.

Passiamo ora alla lettura del secondo brano. È questo un testo poetico e co­ me tale dovremo presentarlo agli alunni. Faremo osservare come il linguaggio abbia carattere più allusivo, i costrutti siano meno regolari, taluni vocaboli risultino più ricercati. L’esame del primo verso, Curius parvo quae legerat hor‑ to, ci permetterà di porre subito l’accento sull’uso del pronome relativo, qui concordato con holuscula che è un sostantivo neutro plurale della seconda declinazione. Ugualmente importante è pure l’espressione moris erat quondam festis ser‑ vare diebus, in cui si sottolinea il moris erat (letteralmente in italiano «era di co­ stume»), seguito da un verbo di modo infinito. Altre locuzioni affini potrebbero essere mos erat, consuetudo erat ecc. Altri due versi ci permettono di far conoscere l’uso del participio presente, che è pressoché sconosciuto nella nostra lingua. Sicci terga suis, rara penden‑ tia crate, dice Giovenale e più sotto ancora erectum referens a monte ligonem. Pendentia è il participio presente del verbo pendere, referens del verbo refer‑ re. Il participio presente in latino si comporta quasi come un aggettivo della seconda classe a una sola terminazione (ha soltanto l’ablativo singolare in ‑e, anziché in ‑i) e può sostituire sia il gerundio presente italiano sia una propo­ sizione relativa. Nel tradurre pendentia che viene riferito alle terga seccate del porco (una specie di prosciutto), noi potremo rendere bene il concetto latino con una relativa: «che pendono dal graticcio a larghe maglie». Per referens, l’in­ terpretazione più giusta sarà invece «recando la vanga dal monte ritta sull’ome­ ro», in altri termini, useremo dunque il gerundio. 48

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Quali espressioni tipiche della vita romana sottolineiamo ora festis diebus, «durante le solennità», titulo ter consulis (functus), «console per tre volte», dicta‑ toris honore functus, «che aveva ricoperto la carica di dittatore». Functus è un participio perfetto. Il verbo fungor regge l’ablativo e significa «adempiere, com­ piere, esercitare una funzione»; per quanto riguarda invece il termine honor ricordiamo che esso ha lo stesso significato del vocabolo «onore» italiano, ma è anche la carica, il dovere che, compiuto, ci dovrà procurare questo onore. esempi di esercizi

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Raccogliere tutti gli aggettivi comparsi nel testo e raggrupparli secondo le classi a cui appartengono. Prepararsi a saper ripetere con ordine le loro declinazioni.

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Cercare, con l’aiuto del manuale di grammatica, il paradigma dei verbi che qui ricorrono numerosi e dividerli a seconda delle coniugazioni. Su questi verbi esercitarsi per riconoscere con sicurezza i vari tempi dell’indicativo.

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Con l’aiuto del manuale di grammatica, preparare la declinazione del pronome relativo qui, quae, quod.

Esaminiamo ora il brano di Seneca e avvertiamo gli alunni anzitutto che questo filosofo, vissuto ai tempi di Nerone, usa un periodare più snello, più asciutto, oseremmo quasi dire più simile a quello delle nostre lingue moderne. La prima struttura in cui ci imbattiamo è vidi villam Scipionis lapide quadra‑ to extructam. Extructam è un participio perfetto all’accusativo femminile singo­ lare del verbo extruere; esso si forma dal supino e si declina come un aggettivo della prima classe; lapide quadrato è un complemento di mezzo. Un sinonimo di lapis, lapidis, potrebbe essere saxum che si ritrova pure assai frequente. Murum circumdatum silvae ci offre un altro esempio di participio perfetto e si deve tradurre «il muro messo intorno alla selva». Se invece volessimo far ri­ levare che la «selva era circondata da un muro», potremmo usare silvam circum­ datam muro, in cui muro diventerebbe un complemento di mezzo. Espressio­ ne simile è cisternam aedificiis ac viridibus subditam, «la cisterna attorniata da edifici e da alberi». Sottolineiamo poi gli aggettivi angustum, tenebricosum, tam sordido, tam vile che tutti stanno a descrivere la povertà di quella dimora. Anche in questo passo, noi troviamo espressioni consuete a rappresentare le fatiche dei campi: fessum laboribus rusticis, in cui il termine labor ha il valo­ re di «fatica, travaglio». Altre due locuzioni sono: se exercebat opere che ancora vuol dire «lavorava» e terram subigebat che corrisponde al nostro «vangava la terra». 49

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Riconoscere gli aggettivi e i pronomi dimostrativi e prepararne la declinazione con l’aiuto del manuale di grammatica.

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Riscrivere tutto il brano portando i tempi dei verbi al presente, anziché al perfetto come si trova nel testo.

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Copiare tutte le proposizioni in cui si trovano i complementi di mezzo.

Leggiamo infine i versi di Ovidio. Abbiamo qui nuovamente un breve squarcio di poesia. Nel primo verso, Iuppiter angusta vix totus stabat in aede, occorre far rilevare che il verbo stabat, il cui infinito è stare, non corrisponde esattamente al suo omonimo italiano ma indica invece lo «stare ritto in piedi, l’ergersi» di una persona, di un oggetto. Se noi volessimo dire invece che nel tempio del Campidoglio si trovava, vi era, stava la statua di Giove, useremo una voce del verbo esse, come d’altra parte troviamo nell’espressione del verso seguente: inque Iovis dextra fictile fulmen erat, «nella destra di Giove si trovava, vi era, un fulmine di creta». Come nei precedenti brani, anche qui possiamo ancora sottolineare l’uso così frequente del complemento di mezzo: frondibus ornabant, quae nunc Capitolia gemmis. L’esame infine si può concludere con un’ultima locuzione di vita agreste: pascebatque suas ipse senator oves. Si era cominciato con agros colebat riferito a un dittatore e si chiude con la visione dei senatori che sul Campidoglio pa­ scolavano le greggi. esempi di esercizi

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Preparare la declinazione del vocabolo Iuppiter che abbiamo già trovato al nominativo e al genitivo.

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Cercare il genitivo e il dativo di totus, tota, totum e vedere quali altri aggettivi indefiniti abbiano la declinazione affine.

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esercizi di riepilogo Per una corretta traduzione gli alunni potranno servirsi delle espressioni sulle quali ci siamo soffermati nel nostro lavoro precedente di analisi dei testi, oppure potranno essere guidati a trovare locuzioni affini. ·

Il contadino, nei giorni festivi, riposa nella sua piccola casa circondata da verdi prati.

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Il pastore fa uscire dal recinto il gregge e lo pascola nelle selve vicine.

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L’agricoltore, munito della vanga, dissoda il suo campo.

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Cincinnato ritorna al suo tugurio, posto al di là del fiume Tevere, e coltiva nuovamente il suo podere.

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Il console comanda ai nemici vinti di consegnare gli ostaggi.

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Cesare, conducendo con sé l’esercito, passò il fiume Rubicone.

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Nel compleanno di un familiare, i Romani offrivano agli dèi una vittima e celebravano un banchetto.

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Il bagno ritempra il corpo, stanco dalle fatiche agresti.

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