Antologia 2 Storie per ridere - Gruppo Editoriale il capitello

Storie per ridere 5 Antologia 2 Testi umoristici di oggi e di ieri, per ridere insieme IL PIACERE DI LEggERE EQUIVOCI A RAFFICA U. Eco Ciao, come stai...

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Storie 5 ridere Antologia 2

per

Testi umoristici di oggi e di ieri, per ridere insieme IL PIACERE DI leggere EQUIVOCI A RAFFICA

Ciao, come stai?

U. Eco

p.   95

UN CLASSICO DELL’UMORISMO

Una vacanza in campeggio

P. Villaggio F. Flórez

Lotta con la valigia

W. S. Porter

Un ottimo affare

p.   97 p.   99 p. 101

Il piacere di leggere Antologia 2

5. Storie per ridere

equivoci a raffica

Ciao, come stai?

Umberto Eco

–C

Alla domanda «Ciao, come stai?» di solito si risponde «Bene, scoppio di salute», «Male, ho il raffreddore»; ma, come vedrai, queste non sono le uniche risposte possibili se si ha voglia di giocare con le parole e i loro significati… Qui siamo alle prese con una serie di equivoci, originati dall’interpretazione letterale di alcuni tra i più usati modi di dire.

iao, come stai? –  Come sempre, sto in piedi. –  Ma no, volevo dire come stai di salute. –  Ah! Be’, tiro avanti. –  Vuoi dire che non ti va tanto bene? –  No, voglio dire che mi sto allenando per le gare di sci: mi legano dei pesi in vita ed io corro trascinandomeli dietro nella neve… Sai, serve per potenziare i muscoli. E tu? –  Eh, io vedo tutto nero. –  Sarebbe a dire? –  Ho trovato lavoro come becchino e ai funerali i colori pastello non vanno tanto per la maggiore. –  Vuoi dire che non ci si può vestire sgargianti solo in Strada Maggiore o che i colori non vanno bene per le signore di una certa età? –  Ma no, voglio dire che sono fuori luogo. –  Cioè fuori dal cimitero? –  Senti, lascia stare e stendiamo un velo pietoso sulla faccenda. –  Non capisco: dove lo trovi qui, adesso, un velo? È giovedì pomeriggio e tutti i negozi sono chiusi!

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–  Santa Pazienza! Certo che tu sei proprio un osso duro. –  Grazie per il complimento, ma mi aspettavo che notassi più i muscoli che non le ossa! –  Veramente io intendevo dire che parlare con te è come parlare a un muro. –  Vuoi dire per l’altezza? –  Ma sei impossibile! E pensare che di te conosco vita, morte e miracoli! –  Per la vita posso anche crederci, ma se permetti di morte conoscerai quella dei tuoi clienti! –  Vorrei sapere se sei veramente così stupido o se fai l’indiano. –  Macché! Ci ho sempre tenuto ad essere un vero macho latino. –  In fondo1 sei anche simpatico. –  Ma sì, te l’avevo detto che faccio sci. –  Non molli mai la presa, eh? –  Guai, altrimenti cado in pista! –  Ti torcerei l’osso del collo. –  Ad essere sinceri ho già un massaggiatore personale, ma se vuoi cambiare mestiere posso chiedere a qualche amico. –  Non ti reggo più. –  Non mi stai nemmeno tenendo in braccio. –  Volevo dire che ne ho fin sopra i capelli di te. –  Lo sai che sono sempre stato più alto io! –  Te lo chiedo per favore: alza i tacchi e non farti più vedere… E adesso perché ti togli le scarpe? –  Me lo hai detto tu di alzare i tacchi. –  Certo che tu devi essere uno di quelli di cui buttano via lo stampo per la disperazione! –  Non ho capito bene il discorso, ma so che se mi viene male una torta devo buttare via la torta, non lo stampo! –  Perché le nostre strade si sono incrociate? –  Perché tu arrivavi da una laterale. –  Adesso basta: me ne vado… E che Dio me la mandi buona! –  Vecchio marpione! L’ho sempre saputo che in fatto di donne sei esigente!

1.  fondo: ci si riferisce a un tipo di sci chiamato di «fondo» che si svolge su un terreno per lo più pianeggiante.

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Povero Pinocchio. Giochi linguistici di studenti bolognesi al Seminario di scrittura di Umberto Eco, Panini Franco Cosimo in

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Il piacere di leggere Antologia 2

5. Storie per ridere

un classico dell’umorismo

Una vacanza in campeggio

Paolo Villaggio

F

Ed eccoti le divertenti disavventure di Fantozzi, il più famoso ragioniere d’Italia che, arrivato il periodo delle ferie, decide di andare in campeggio con il collega Fracchia…

antozzi per sfuggire alle tagliole dell’organizzazione ha pensato di vivere una libera vacanza in campeggio a contatto con la natura, lontano da alberghi e itinerari consigliati. Si è comperato allora una tenda. Mai una decisione fu più tragica. Dopo una settimana di «allenamento» nel giardino del collega Fracchia, i due, sentendosi ormai maturi per un campeggio regolare, partirono. Nel sedile posteriore dell’utilitaria di Fantozzi la tenda era un pacchettino piccolo e meraviglioso. I due la guardavano con orgoglio e quando pensavano ai poveretti che sarebbero caduti nella trappola di un «giro organizzato alberghi compresi» ridevano forte, nonostante la pioggia implacabile delle loro due «nuvole da impiegati» che batteva sui vetri della macchina. Incrociarono molte corriere di impiegati inseguite da temporali isolati e anche potenti cilindrate di megapresidenti che volavano in riquadri di sole. Fantozzi per un sorpasso in curva fu frustato in un autogrill da due agenti della stradale, di fronte a una folla spaventata. A causa di questo umiliante contrattempo, i due arrivarono a un camping pieno di turisti tedeschi a notte fonda. Aprirono il pacchetto e cominciarono fischiettando i lavori. Furono severamente ammoniti dal guardiano che fece loro presente che il sonno degli altri campeggiatori andava rispettato. Si sentiva solo il picchiettio del martello di Fracchia che piantava

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i pioli reggitenda. Era un rumore metallico e ritmico che nei campeggi era tollerato. Tinn… tinn… faceva il martello e i due si sentivano inseriti nel novero dei campeggiatori professionisti. Tup! fece il martello centrando il pollice di Fantozzi che reggeva i pioli mentre Fracchia maneggiava abilmente il martello. Fantozzi si ricordò che non erano ammessi rumori e si avventò per un chilometro nella boscaglia e solo quando fu fuori portata di voce squarciò la notte con un ululato preistorico. Tornò dopo mezz’ora con un pollice da «marina» e sussurrò a Fracchia: –  Stia attento, porca miseria, mi ha smontato la mano –. E nel buio gli offrì una sigaretta per fargli intendere che non gli serbava rancore. – Tenga – bisbigliò. Fracchia pensò che gli passasse un altro piolo da piantare e lo centrò con un’altra tremenda martellata sulle nocche. Fantozzi si avventò nuovamente nella boscaglia. Tornò all’alba e alzarono la tenda. Dormirono male nei lettini da campeggio, i quali hanno la sinistra caratteristica, durante la notte, di stringersi e accorciarsi, stringersi e accorciarsi fino a diventare delle sottili listarelle nelle quali si devono compiere miracoli di equilibrio. Alle otto del mattino la tenda lentamente si afflosciò. I nostri si dibatterono per venti minuti sotto gli occhi esterrefatti degli abilissimi campeggiatori tedeschi, come Laocoonte, i figli e i serpenti1 nel groviglio della tenda, poi cominciarono a gridare «Aiuto… aiuto…»; i tedeschi li salvarono da sicura morte per asfissia. La sera dopo la tenda si afflosciò alle due di notte e cominciarono subito a gridare. Nel montare la tenda, Fracchia aveva anche centrato Fantozzi nella nuca, scambiandolo per un piolo. La terza sera dormirono in un albergo con un gruppo che faceva un itinerario consigliato. Senza consultarsi decisero allora di tornare. La tenda occupava ora tutto l’abitacolo dell’utilitaria e Fracchia fece il viaggio di ritorno legato al tetto con le valigie. Fantozzi era distrutto e guidava a fatica. In autostrada ebbe degli incubi orrendi perché la tenda continuava a crescere fino a soffocarlo e ogni tanto urlava «Aiuto!». Quando fu immerso nella tenda cominciò a guidare col radar: vale a dire Fracchia dal tetto gli indicava le curve con dei gridolini sinistri. Sotto casa di Fracchia fecero un frontale contro un palo della luce. Fantozzi uscì dai rottami col volante in mano, era l’unica parte dell’utilitaria, che aveva appena finito di pagare, sopravvissuta. Si avvicinò al palo e gli domandò tragicamente: –  Scusi, è assicurato lei? P. Villaggio,

Fantozzi, Rizzoli

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1.  Laocoonte, i figli e i serpenti: riferimento scherzoso al drammatico episodio dell’Eneide, in cui il sacerdote Laocoonte e i suoi due figli muoiono tra le spire di due mostruosi serpenti inviati dalla dea Atena, dopo aver inutilmente lottato per divincolarsi.

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Il piacere di leggere Antologia 2

5. Storie per ridere

un classico dell’umorismo

Lotta con la valigia

Fernández Flórez

M

Preparare una valigia e soprattutto chiuderla, alla fine delle vacanze, sembra davvero un’impresa disperata in questo esilarante racconto in cui calzini, mutande, pigiami, magliette e spazzolini da denti ce la mettono proprio tutta per far impazzire il povero protagonista!

i sedetti davanti a quella valigia gonfia, nella quale la roba avanzava tanto da obbligare il coperchio a una posizione verticale, e affondai tra le mani la testa bollente. Non ricordavo di essere mai stato tanto infelice come in quel momento. Dalle nove del mattino non avevo fatto altro che provare e riprovare tutti i sistemi possibili per sistemare in quell’odiosa cassa i miei vestiti ed ero soltanto riuscito a farvene entrare una piccola parte… Era già l’una e mezzo del pomeriggio. Non mi ero ancora rasato né vestito; ero rimasto in pigiama e in vestaglia, come dopo essermi alzato, e sudavo come se avessi addosso un cappotto. Verso mezzogiorno ero talmente angosciato da sragionare e trattare quella valigia come una persona. Dapprincipio la trattai teneramente: –  So bene che è sgradevole tenere tutte queste cose dentro di te, soprattutto le scarpe… Bene: allora toglierò le scarpettine e la valigina si comporterà bene e accetterà tutto il resto!… D’accordo? Ma la valigia continuava a comportarsi male. –  Su, sii buona! Oggi dobbiamo prendere il treno, le vacanze sono finite, io ho già comprato il biglietto e devo ancora fare mille cose… E lei, niente, cocciuta e ostinata. Allora arrivai a insultarla: –  Stupida! A che diavolo servi? Vuoi prendermi in giro? Ti farò vedere io chi è il più forte! Le appioppai una terribile pedata, una sola perché calzavo pantofole leggere e il male che mi procurai fu terribile… Poi mi ritrovai piangente, inginocchiato davanti a lei, che sbadigliava con la bocca aperta attraverso la quale occhieggiavano calzini multicolori appallottolati, come ortaggi da una cesta. Trascorsero altri terribili minuti. Non potevo rimanere lì come un imbecille, con la

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roba sparsa per la camera e la valigia ostinata… Fu allora che bussarono alla porta. Andai ad aprire. Era il mio vicino di camera che, richiamato dal rumore, era venuto a chiedermi che cosa stesse succedendo… –  Lei è il benvenuto! – quasi gridai. Poi, frenando a stento i singhiozzi, gli spiegai in breve l’emergenza e gli chiesi: – Vuole essere così gentile da aiutarmi a chiudere la valigia? Egli rifletteva con aria concentrata e perplessa, poi domandò: –  Ma lei ha comprato molta roba, in vacanza? –  Non ho comprato nulla – mormorai afflitto – tutto ciò che vede entrò in questa maledetta valigia, quando partii. Anzi, ce n’era di più perché in albergo mi hanno perso due camicie e una giacca… L’uomo scosse la testa dicendo: –  Eh, le valigie sono fatte così. Dovrebbe fare come me, io compro sul posto tutto quello che mi serve, così viaggio leggero… Va bene, diamoci da fare! Sistemammo le camicie. Rimaneva poco spazio, giusto per gli abiti. Sistemammo anche quelli. Non entrava più niente. L’uomo chiese un momento di pausa perché, a furia di stare chinato, gli era venuto mal di schiena… Provammo molte combinazioni, ma non ci fu niente da fare. Alla fine collaudammo una tecnica nuova: consisteva nel pigiare la roba con pugni energici, poi ci buttammo seduti sopra la valigia. Cautamente, io feci scivolare la mano sulla serratura, chiudendo finalmente la dannata valigia. –  È fatta! – gridai. –  È fatta… – sussurrò quel signore, sfinito. Naturalmente scarpe e altre sciocchezze simili erano rimaste fuori, ma decidemmo di buttarle in sacchetti facilmente trasportabili. –  Non dimenticherò mai la sua gentilezza – esclamai abbracciando commosso il mio buon vicino. Anche lui era commosso. Si avviò alla porta ma, prima che la sua mano si posasse sulla maniglia, un’angosciata esclamazione lo fece voltare allarmato. –  Che c’è? Io avevo gli occhi sbarrati, le gambe tremanti, le braccia penzoloni lungo i fianchi. Indicai il pigiama e la vestaglia che ancora indossavo… –  Uhhhh! – esclamò il simpatico vicino. E cadde all’indietro. F. Flórez, in

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Umoristi del Novecento, Garzanti

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Il piacere di leggere Antologia 2

5. Storie per ridere

un classico dell’umorismo

Un ottimo affare

William S. Porter

S

Due gangster un po’ balordi credono che il rapimento del figlio di un rispettabile e ricco signore sia un buon affare: preparano le provviste, si ritirano in una grotta, studiano il messaggio da mandare alla famiglia. Ma…

embrava proprio un buon affare: ma aspettate che vi racconti tutto. Eravamo, Bill Driscol ed io, giù nell’Alabama1, quando ci passò per la testa quell’idea di rapire un bambino. Fu, come Bill spiegò poi, «durante un momento di temporanea confusione mentale»; ma ce ne accorgemmo troppo tardi. Scegliemmo come nostra vittima il figlio unico di un cittadino in vista, di nome Ebenezer Dorset, un uomo rispettabile e duro. Ci immaginavamo che egli si sarebbe precipitato a pagare un riscatto di duemila dollari. Ma aspettate che vi racconti tutto. A circa due miglia da Collalto, c’era una montagnola ricoperta da una fitta macchia di cedri. In alto, nel retro di essa, una grotta, dove noi raccogliemmo le provviste. Una sera dopo il tramonto, guidammo il nostro macinino2 oltre la casa del vecchio Dorset. Il bambino era nella strada e tirava sassi a un gattino aggrappato allo stecconato3 della casa di fronte. –  Ehi, giovanotto! – disse Bill. – Ti piacerebbe un pacchetto di caramelle e fare una bella corsa in macchina? Il bambino colpì Bill dritto in un occhio con un pezzo di mattone, e cominciò a dibattersi come un grosso orso bruno; ma infine lo stendemmo in fondo alla macchina e via. Lo portammo su alla grotta. Quando fu buio, portai la macchina al villaggio distante tre miglia dove l’avevamo presa a nolo, quindi ritornai a piedi al nostro colle. Bill stava incollandosi dei cerotti sui graffi e le ammaccature del viso. Dietro la grossa roccia dell’entrata della grotta c’era un fuoco acceso, e il ragazzo stava a guardare bollire una marmitta4 di caffè, con due penne di coda di falco piantate nei capelli rossi. Punta un bastone contro di me che sto salendo e grida: –  Ah! maledetto viso pallido, osi entrare nell’accampamento di Capo Rosso, il terrore delle praterie? –  Si è calmato, ora – dice Bill, arrotolandosi i calzoni ed esaminandosi alcune ammaccature sugli stinchi. – Stiamo giocando agli Indiani. Io sono Vecchio Laccio, il Cacciatore, prigioniero di Capo Rosso, e lui mi deve scotennare5 domattina all’alba. Per Geronimo! quel ragazzo sa picchiar sodo!

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1.  Alabama: stato sudorientale degli Stati Uniti. 2.  macinino: termine scherzoso con cui si designa un’automobile vecchia e malandata.

3.  stecconato: steccato. 4.  marmitta: recipiente da cucina.

5.  scotennare: tagliare il cuoio capelluto, secondo l’uso pellerossa. Il

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Sissignori, quel ragazzo sembrava divertirsi come mai in vita sua. L’eccitazione di accamparsi in una caverna gli aveva fatto dimenticare di essere lui stesso un prigioniero. Mi battezzò subito Occhio di Serpente, la Spia, e mi annunciò che quando i suoi uomini fossero ritornati dal sentiero di guerra, al levare del sole sarei stato bruciato vivo. Ogni tanto si ricordava di essere un insopportabile pellerossa; allora afferrava il bastone che gli serviva da fucile e in punta di piedi andava all’imboccatura della grotta a spiare gli esploratori dei visi pallidi. Ogni tanto lanciava un grido di guerra che faceva rabbrividire. –  Capo Rosso – dissi al ragazzo – ti piacerebbe andare a casa? –  A far che? – disse quello. – Non mi diverto a casa. Non mi piace andare a scuola. Mi piace accamparmi all’aperto. Non mi porterete a casa, Occhio di Serpente, vero? Andammo a coricarci circa alle undici. Stendemmo per terra coltri6 e coperte di lana e mettemmo Capo Rosso in mezzo a noi. Ci tenne svegli per altre tre ore, saltando e correndo a prendere il suo fucile e strillando: – Zitti, compagni! – nelle orecchie mie e di Bill, quando lo scricchiolìo di un ramoscello e il fruscìo di una foglia rivelava alla sua immaginazione infantile l’avvicinarsi furtivo di una banda di fuorilegge. Finalmente caddi in un sonno agitato, e sognai che ero stato rapito e legato a una pianta da un feroce pirata dai capelli rossi. Era prima dell’alba che fui svegliato da una serie di orribili urli: venivano da Bill. Saltai su a vedere cosa mai succedesse. Capo Rosso sedeva sul petto di Bill, e con una mano gli aveva afferrato i capelli. Nell’altra teneva il coltello tagliente che usavamo per affettare la pancetta; e si sforzava nel più realistico dei modi di impadronirsi del cuoio capelluto di Bill, secondo il verdetto7 pronunciato la sera precedente. Strappai il coltello al bambino e lo obbligai a coricarsi di nuovo. Sonnecchiai per un po’, ma verso l’alba mi ricordai che Capo Rosso aveva deciso che io sarei stato bruciato al palo al sorgere del sole. Non ero nervoso o spaventato: ma mi misi a sedere appoggiandomi contro la roccia e accesi la pipa. –  Perché ti alzi così presto, Sam? – chiese Bill.

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6.  coltri: coperte da letto. 7.  il verdetto: la sentenza. Il

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–  Io? – risposi. – Ah! ho un certo dolore in una spalla. Ho pensato che sarei stato meglio seduto. –  Sei un bugiardo! – disse Bill. – Tu hai paura. Dovevi essere bruciato all’alba e temevi che lui l’avrebbe fatto. E lo farebbe, se potesse trovare un fiammifero. Non è spaventoso, Sam? Credi che qualcuno possa sborsare dei soldi per riprendersi indietro un demonio di quel genere? –  Certo – dissi io – sono proprio i mascalzoncelli di quel genere che i genitori amano alla follia. Ora tu e il Capo Rosso vi alzate e preparate la colazione, mentre io salgo sulla cima della collina a fare un’ispezione. In quel momento sentimmo una specie di grido di guerra, simile a quello che Davide deve aver emesso quando stese a terra il gigante Golia. Capo Rosso aveva tirato fuori dalla sua tasca una fionda, e ora stava prendendo la mira girando intorno a se stesso. Balzai rapidamente da parte e sentii un forte colpo sordo e un profondo sospiro: un sasso nero grosso come un uovo aveva colpito Bill dietro l’orecchia sinistra. Egli perse l’equilibrio e cadde sul fuoco sopra la marmitta di acqua calda per lavare i piatti. Lo trascinai fuori e gli versai acqua fredda sulla testa per una buona mezz’ora. Un po’ alla volta Bill si mette a sedere, si palpa dietro all’orecchio e dice: –  Sam, sai qual è il mio personaggio biblico preferito? –  Coraggio – dissi io. – Presto starai bene. –  Re Erode8 – disse lui. – Tu non andrai via e mi lascerai qui solo, vero, Sam? Uscii, afferrai il ragazzo e lo scossi sino a fargli saltare le budella. –  Se non ti comporti bene – gli dissi – ti porterò diritto a casa. Dunque, starai buono o no? –  Stavo soltanto scherzando – disse quello improvvisamente. – Non avevo intenzione di far male a Vecchio Laccio. Sarò bravo, Occhio di Serpente, se non mi manderete a casa e mi lascerete giocare oggi all’Esploratore Nero. –  Non conosco il giuoco – dissi. – Lo dovete decidere tu e il signor Bill. È tuo compagno di giuochi, per oggi. Devo andar via per affari per un po’. Adesso vieni dentro, fa’ la pace con lui e digli che ti dispiace di avergli fatto male, altrimenti andrai a casa subito. Volli che lui e Bill si scambiassero una stretta di mano, quindi presi in disparte Bill. –  Tornerò verso sera – dissi. – Devi far divertire il ragazzo e tenerlo tranquillo fino al mio ritorno. E ora scriviamo la lettera al vecchio Dorset.

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8.  Re Erode: Erode, re di Giudea, viene ricordato soprattutto per la «strage degli innocenti», cioè per aver ordinato l’uccisione di tutti i bambini maschi al di sotto dei due anni, allo scopo di far morire anche il piccolo Gesù. In questo caso il richiamo al crudelissimo infanticida è ovviamente scherzoso.

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Bill e io prendemmo carta e matita e lavorammo alla lettera, mentre Capo Rosso, avvolto in una coperta, andava fieramente avanti e indietro davanti all’imboccatura della caverna, per proteggerla. Bill mi pregò con le lacrime agli occhi di ridurre la somma del riscatto da duemila a millecinquecento dollari. –  Non sto cercando di deprezzare9 – disse – il tanto celebrato affetto paterno, ma noi stiamo trattando con degli esseri umani e nessun essere umano può essere tanto umano da perdere duemila dollari per quel lentigginoso gatto selvatico da due soldi. Sarebbe una fortuna per noi riuscire ad avere millecinquecento dollari. Ti pagherò io la differenza. Così, per togliere un peso a Bill, accettai; insieme combinammo la lettera, e firmammo: «Due uomini disperati». Me ne andai poi a Ca’ dei Pioppi e mi sedetti dalle parti della posta e della drogheria a parlare con i villani10 che venivano in paese a trafficare. Comperai un po’ di tabacco, feci un accenno al prezzo di una certa qualità di piselli, impostai furtivamente la lettera e me ne venni via. Quando ritornai alla caverna, non ci trovai più Bill e il ragazzo. Esplorai nelle vicinanze, arrischiai anche qualche richiamo, ma non ebbi risposta. Circa mezz’ora dopo sentii frusciare i cespugli e Bill avanzò incerto nella piccola radura di fronte alla caverna. Dietro di lui c’era il ragazzo che lo seguiva senza farsi sentire, come un vero esploratore, con una smorfia divertita sul viso. Bill si fermò, si tolse il cappello e si asciugò la faccia con un fazzoletto rosso. Il ragazzo si fermò a circa trenta metri da lui.

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9.  deprezzare: far diminuire di valore.

10.  villani: abitanti della campagna.

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–  Sam – disse Bill – certamente mi prenderai per un rinnegato11, ma non ho potuto farne a meno. Non sono più un ragazzo, ho un temperamento virile12 e l’abitudine di difendermi, ma arriva un momento in cui tutti i tuoi princìpi di egocentrismo13 e di dominio vengono meno. Il ragazzo se n’è andato. L’ho mandato a casa. Tutto è finito. Ci sono stati dei martiri nei tempi antichi – continuò Bill – che sopportavano la morte, piuttosto che rinunciare alle loro idee. Ma nessuno di essi fu mai sottoposto a torture soprannaturali come lo sono stato io. Ho cercato di mantenermi fedele al nostro patto di rapina; ma c’è un limite a tutto. –  Cos’è successo, Bill? – gli chiesi. –  Ho fatto il cavallo – disse Bill – per quelle novanta miglia sino alla palizzata, senza ribellarmi. Poi, quando i coloni sono stati liberati, ho mangiato l’avena. La sabbia non è un surrogato14 gradevole. Poi per un’ora ho dovuto spiegargli perché nei buchi non c’è niente, come un’unica strada può portare in due diverse direzioni e cos’è che fa verde l’erba. Te lo dico io, Sam, era insopportabile. L’ho preso allora per il colletto e l’ho trascinato giù dal monte. Lui continuava a tirarmi calci: le mie gambe sono tutte un livido dal ginocchio in giù; e poi mi ha dato dei morsi al pollice e alla mano. Gli ho mostrato la strada e ce l’ho mandato a furia di calci. Mi dispiace che abbiamo perso i soldi del riscatto; ma dovevo scegliere fra quelli e il manicomio. Bill soffia ed ansima, ma c’è un’espressione di pace ineffabile15 e di contentezza crescente nei suoi lineamenti. –  Bill – gli chiedo – nessuno ha avuto il mal di cuore nella tua famiglia, vero? –  No – disse Bill – nulla di cronico16 eccetto la malaria17 e le disgrazie. Perché? –  Allora puoi voltarti – dissi io – e dare un’occhiata dietro di te. Bill si volta, vede il ragazzo e cambia colore; cade a sedere pesantemente per terra e comincia a strappare un filo d’erba dopo l’altro, automaticamente. Per un’ora temetti per la sua ragione. Quindi gli dissi che il mio piano era di agire immediatamente e che avremmo avuto i soldi del riscatto e che per mezzanotte saremmo potuti essere in viaggio, se il vecchio Dorset avesse accettato la nostra proposta. Alle otto e mezzo io ero ad aspettare il messaggero, nascosto sulla pianta come un corvo. In perfetto orario, ecco un ragazzetto arrivare in bicicletta per la strada, e infilare un biglietto dentro una scatola da pasta ai piedi dello steccato. Aspettai per un’ora e, concluso che tutto andava bene, scesi dalla pianta, presi il biglietto, scivolai lungo lo steccato e me la battei attraverso i boschi: in una mezz’ora ero di ritorno alla caverna. Apersi il biglietto e, avvicinandolo alla luce della lanterna, lo les-

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11.  rinnegato: persona che non riconosce più i princìpi in cui credeva prima. 12.  virile: da uomo forte. 13.  egocen­tri­smo: tendenza ad accentrare tutto su di sé; spesso significa «egoismo».

14.  surrogato: prodotto sostitutivo di un altro; in questo caso Bill ha mangiato sabbia fingendo che fosse avena. 15.  ineffabile: indicibile, che non può essere espresso a parole.

16.  cronico: si dice di una malattia persistente.

17.  malaria: malattia trasmessa dalla puntura della zanzara anofele.

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si a Bill. Era scritto a penna in una scrittura illeggibile, e questo era in sostanza il suo contenuto:

Ai due uomini disperati

Signori, ho ricevuto oggi per posta la vostra lettera, riguardante il ri­ scatto per la restituzione di mio figlio. Penso che vi siate te­ nuti un po’ troppo alti nelle vostre richieste e perciò vi faccio una controproposta, che ho l’ impressione che voi accetterete. Portatemi a casa Johnny e pagatemi duecentocinquanta dol­ lari in contanti, ed io acconsentirò a liberarvi di lui. Sarà meglio che veniate di notte, perché i vicini credono che si sia perduto e io non potrei rispondere per quello che essi farebbero a chiunque vedessero riportare il ragazzo. Molto rispettosamente Ebenezer Dorset –  Per tutti i pirati della Malesia! – dissi io. – Nessuno fu mai più impudente18… Ma, data un’occhiata a Bill, esitai. C’era nei suoi occhi l’impressione più supplichevole che mai abbia visto. –  Sam – disse – che cosa sono dopotutto duecentocinquanta dollari? Li abbiamo. Un’altra notte con questo ragazzo ed io sarò pronto per il manicomio. Lo portammo a casa quella notte. Lo persuademmo a partire dicendogli che suo padre gli aveva comperato un fucile incrostato d’argento e un paio di mocassini19, e che il primo giorno saremmo andati a caccia di orsi. Era mezzanotte quando bussammo alla porta di casa di Ebenezer. Proprio nel momento in cui io avrei dovuto ritirare, secondo il piano primitivo, i millecinquecento dollari dalla scatola sotto la pianta, Bill ne contava duecentocinquanta in mano a Dorset. Quando il bimbo si accorse che stavamo per lasciarlo a casa, cominciò a urlare come un indemoniato e si attaccò come una sanguisuga ad una gamba di Bill. Suo padre riuscì a staccarlo di lì un po’ alla volta, come si fa con i cerotti. –  Per quanto tempo potete tenerlo stretto? – chiese Bill. –  Non sono più forte come una volta – rispose il vecchio Dorset – ma posso permettermi di tenerlo per dieci minuti. –  È sufficiente – disse Bill – in dieci minuti avrò il tempo di attraversare gli Stati del Centro, del Sud e dell’Ovest e di incamminarmi rapidamente verso la frontiera del Canada. Per quanto fosse buio e per quanto grasso fosse Bill e per quanto io sapessi correre, egli si trovava già a un miglio e mezzo fuori di Collalto prima che lo potessi raggiungere.

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18.  impudente: sfacciato. 19.  mocassini: in questo caso si intende il particolare tipo di calzatura dei pellerossa americani.

W. S. Porter, in Umoristi del Novecento, Garzanti Il

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