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SENECA Lettere a Lucilio 47, 1-6, 10-13, 16-21 (percorso 2, testi 2, 3, 4) 1 Ho sentito con piacere da persone provenienti da te che tratti familiarme...

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SENECA Lettere a Lucilio 47, 1-6, 10-13, 16-21 (percorso 2, testi 2, 3, 4) 1 Ho sentito con piacere da persone provenienti da te che tratti familiarmente i tuoi servi: questo comportamento si confà alla tua saggezza e alla tua istruzione. "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. 2 Perciò rido di chi giudica disonorevole cenare in compagnia del proprio schiavo; e per quale motivo, poi, se non perché è una consuetudine dettata dalla piú grande superbia che intorno al padrone, mentre mangia, ci sia una turba di servi in piedi? Egli mangia oltre la capacità del suo stomaco e con grande avidità riempie il ventre rigonfio ormai disavvezzo alle sue funzioni: è più affaticato a vomitare il cibo che a ingerirlo. 3 Ma a quegli schiavi infelici non è permesso neppure muovere le labbra per parlare: ogni bisbiglio è represso col bastone e non sfuggono alle percosse neppure i rumori casuali, la tosse, gli starnuti, il singhiozzo: interrompere il silenzio con una parola si sconta a caro prezzo; devono stare tutta la notte in piedi digiuni e zitti. 4 Così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura. 5 Inoltre, viene spesso ripetuto quel proverbio frutto della medesima arroganza: "Tanti nemici, quanti schiavi": loro non ci sono nemici, ce li rendiamo tali noi. Tralascio per ora maltrattamenti crudeli e disumani: abusiamo di loro quasi non fossero uomini, ma bestie. Quando ci mettiamo a tavola, uno deterge gli sputi, un altro, stando sotto il divano, raccoglie gli avanzi dei convitati ubriachi. 6 Uno scalca volatili costosi; muovendo la mano esperta con tratti sicuri attraverso il petto e le cosce, ne stacca piccoli pezzi; poveraccio: vive solo per trinciare il pollame come si conviene; ma è più sventurato chi insegna tutto questo per suo piacere di chi impara per necessità. [...] 10 Considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo. Con la sconfitta di Varo la sorte degradò socialmente molti uomini di nobilissima origine, che attraverso il servizio militare aspiravano al grado di senatori: qualcuno lo fece diventare pastore, qualche altro guardiano di una casa. E ora disprezza pure l'uomo che si trova in uno stato in cui, proprio mentre lo disprezzi, puoi capitare anche tu. 11 Non voglio cacciarmi in un argomento tanto impegnativo e discutere sul trattamento degli schiavi: verso di loro siamo eccessivamente superbi, crudeli e insolenti. Questo è il succo dei miei insegnamenti: comportati con il tuo inferiore come vorresti che il tuo superiore agisse con te. Tutte le volte che ti verrà in mente quanto potere hai sul tuo schiavo, pensa che il tuo padrone ha su di te altrettanto potere. 12 "Ma io", ribatti, "non ho padrone." Per adesso ti va bene; forse, però lo avrai. Non sai a che età Ecuba divenne schiava, e Creso, e la madre di Dario, e Platone, e Diogene? 13 Sii clemente con il tuo servo e anche affabile; parla con lui, chiedigli consiglio, mangia insieme a lui. A questo punto tutta la schiera dei raffinati mi griderà: "Non c'è niente di più umiliante, niente di più vergognoso." Io, però potrei sorprendere proprio loro a baciare la mano di servi altrui. [...] 16 Non devi, caro Lucilio, cercare gli amici solo nel foro o nel senato: se farai attenzione, li troverai anche in casa. Spesso un buon materiale rimane inservibile senza un abile artefice: prova a farne esperienza. Se uno al momento di comprare un cavallo non lo esamina, ma guarda la sella e le briglie, è stupido; così è ancora più stupido chi giudica un uomo dall'abbigliamento e dalla condizione sociale, che ci sta addosso come un vestito. 17 "È uno schiavo." Ma forse è libero nell'animo. "È uno schiavo." E questo lo danneggerà? Mostrami chi non lo è: c'è chi è schiavo della lussuria, chi dell'avidità, chi dell'ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console servo di una vecchietta, un ricco signore servo di un'ancella, giovani nobilissimi schiavi di pantomimi: nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria. Perciò codesti schizzinosi non ti devono distogliere dall'essere cordiale con i tuoi servi senza sentirti superbamente superiore: più che temerti, ti rispettino. 18 Qualcuno ora dirà che io incito gli schiavi alla rivolta e che voglio abbattere l'autorità dei padroni, perché ho detto "il padrone lo rispettino più che temerlo". "Proprio così?" chiederanno. "Lo rispettino come i clienti, come le persone che fanno la visita di omaggio?" Chi dice questo, dimentica che non è poco per i padroni quella reverenza che basta a un dio. Se uno è rispettato, è anche amato: l'amore non può mescolarsi al timore. 19 Secondo me, perciò tu fai benissimo a non volere che i tuoi servi ti temano e a correggerli solo con le parole: con la frusta si puniscono le bestie. Non tutto ciò che ci colpisce, ci danneggia; ma l'abitudine al piacere induce all'ira: tutto quello che non è come desideriamo, provoca la nostra collera. 20 Ci comportiamo come i sovrani: anche loro, dimentichi delle proprie forze e della debolezza altrui, danno in escandescenze e infieriscono, come se fossero stati offesi, mentre l'eccezionalità della loro sorte li mette completamente al sicuro dal pericolo di una simile evenienza. Lo sanno bene, ma, lamentandosi, cercano l'occasione per fare del male; dicono di essere stati oltraggiati per poter oltraggiare. 21 Non voglio trattenerti più a lungo; non hai bisogno di esortazioni. La rettitudine ha, tra gli altri, questo vantaggio: piace a se stessa ed è salda. La malvagità è incostante e cambia spesso, e non in meglio, ma in direzione diversa. Stammi bene.

TACITO Agricola, capp. 2-3 (vers. 470, 471, 472) Abbiamo letto che Aruleno Rustico e Erennio Senecione, per aver lodato l'uno Trasea Peto e l'altro Elvidio Prisco, hanno subito la condanna alla pena capitale. Né si infierì solo sugli autori, ma perfino contro i loro libri: i triumviri ebbero infatti l'ordine di bruciare nel comizio e nel foro gli scritti esemplari di quei chia rissimi ingegni. Evidentemente con quel fuoco si pensava di cancellare la voce del popolo romano, la liber tà del senato, la coscienza del genere umano, dopo aver cacciato in esilio i maestri di sapienza e bandito ogni forma onorevole di cultura, perché in nessun luogo si presentasse più davanti agli occhi qualche traccia di dignità morale. Abbiamo dato davvero grande prova di tolleranza e, come tempi ormai passati hanno espresso nelle forme più piene cos'è la libertà, così noi cos'è la servitù, dato che per mezzo dei delatori ci è stata tolta la possibilità di parlare e di ascoltare. La memoria stessa avremmo perso con la voce, se fosse in nostro potere dimenticare come tacere. Ora finalmente si ricomincia a respirare. Ma benché sin dal principio di questa felice età Nerva Cesare ab bia saputo armonizzare due cose da tempo inconciliabili, il principato e la libertà, e Nerva Traiano accresca ogni giorno la felicità dei nostri tempi, e la sicurezza collettiva non si regga più su speranze o desideri ma sulla solida certezza di possederla davvero, tuttavia la stessa fragilità della natura umana rende l'effetto della cura più lento del diffondersi della malattia; e come per i nostri corpi è lenta la crescita, ma rapida la dissoluzione, così è tanto più facile soffocare l'intelligenza e le sue opere che non rianimarle: perché s'insinua nell'animo la dolcezza dell'inerzia, e l'inattività, da principio faticosa, diventa alla fine gradevole. E così in quindici anni, che è tratto non piccolo della vita mortale, molti se ne sono andati per le vicende del caso, ma tutti i più animosi sono caduti per la crudeltà del principe. In pochi siamo ormai sopravvissuti non solo agli altri, ma vorrei dire a noi stessi: perché dal pieno della nostra vita dobbiamo cancellare tanti anni nel corso dei quali, costretti al silenzio, se giovani ci siamo fatti vecchi e se già maturi abbiamo tocca to le soglie estreme dell'esistenza. Pure non sarà inutile documentare, anche se con parole rozze e inefficaci, la passata servitù e testimoniare il buon governo presente. A ogni modo questo scritto, destinato a onorare mio suocero Agricola, possa, per la testimonianza di affetto che esprime, trovare apprezzamento o, almeno, essere scusato. Agricola, cap. 30 (vers. 476) Ogniqualvolta esamino le cause della nostra guerra e la necessità in cui ci troviamo, nutro grande fiducia che questa giornata e il vostro accordo segnino l'inizio della liberazione per l'intera Britannia. Infatti voi vi siete raccolti tutti insieme, e siete ancora immuni dal servaggio, e al di là di noi non c'è più terra alcuna: e neppure nel mare vi è sicurezza, perché ci sta addosso la flotta romana. Così la lotta a mano armata, decoro dei forti, è anche il partito più sicuro per gli imbelli. Nelle battaglie precedenti, combattute con varia fortuna contro i Romani, i Britanni avevano in noi una speranza e una possibilità di aiuto: perché noi, i più nobili di tutta l'isola, e situati come tali nella parte di essa più remota, da cui non si scorgono le rive asservite, avevamo puri anche gli occhi dal contatto con la tirannide. Noi, abitatori estremi della terra e ultimi liberi, siamo stati difesi fino ad oggi dal nostro stesso isolamento e dall'oscurità del nome: ora il termine della Britannia è scoperto, e tutto ciò che è ignoto passa per prodigioso: ma al di là non c'è più alcun popo lo, null'altro vi è se non onde e scogli, e più ostili di essi i Romani, dalla cui tracotanza cercheresti invano di salvarti con l'ossequio e la sottomissione. Predatori del mondo, da quando alla devastazione totale sono venute meno le terre, sprofondano lo sguardo anche nel mare; per avidità se il nemico è facoltoso, per vanagloria se è povero, tanto che né l'Oriente né l'Occidente li sazierebbe. Soli fra tutti, guardano con occhio ugualmente cupido alle ricchezze e alla povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero: e là dove fanno il deserto, gli dànno il nome di pace. Germania, cap. 1 I fiumi Reno e Danubio separano l'intera Germania da Galli, Reti e Pannoni; la reciproca paura o i monti la separano da Sarmati e Daci; le altre parti le cinge l'Oceano, abbracciando ampie penisole e isole di smisura ta estensione, dove, in tempi recenti, abbiamo conosciuto alcuni popoli e re, che la guerra ci ha fatto sco prire. Il Reno, scaturito da inaccessibile e scoscesa vetta delle Alpi Retiche, piegando con lenta curva a oc cidente, va a sfociare nell'Oceano settentrionale. Il Danubio, sgorgando dalla catena del monte Abnoba, non molto elevato e dal dolce pendio, lambisce le terre di molti popoli, per poi gettarsi, da sei foci, nel Mar Pontico; la corrente d'una settima foce s'impaluda.

QUINTILIANO Formazione dell'oratore II 2, 5-8 5 Assuma dunque anzitutto la disposizione d'animo di un padre nei confronti dei suoi allievi, e pensi che prende il posto di coloro dai quali riceve i figli. Egli stesso non abbia né tolleri vizi. La sua austerità non sia triste, la sua familiarità non sia smodata, perché non nasca da una parte odio, dall'altra disprezzo. Parli spesso di cose oneste e buone; infatti quanto più spesso avrà ammonito, tanto più di rado castigherà. Non sia per nulla iracondo, e tuttavia non trascuri ciò che deve essere biasimato, sia semplice nell'insegnare; tolleri la fatica, sia costante piuttosto che sregolato. 6 Risponda volentieri a chi fa domande, stimoli a sua volta chi non lo fa. Nel lodare i discorsi degli allievi non sia stretto né prodigo, perché una cosa genera av versione allo studio, l'altra eccessiva sicurezza. 7 Nel correggere quanto sarà da correggere non sia aspro e per nulla offensivo; infatti il fatto che alcuni rimproverano come se odiassero allontana molti dal proposi to di studiare. 8 Egli stesso dica ogni giorno qualcosa, anzi, molte cose, che gli ascoltatori possano ripetere tra sé. Infatti, anche se egli fornisce nella lettura sufficienti esempi da imitare, tuttavia nutre con più ric chezza quella viva voce, come si dice, del precettore che gli allievi, se solo sono stati ben formati, amano e rispettano. A stento d'altra parte si può dire quanto più volentieri imitiamo coloro per i quali abbiamo simpatia. APULEIO Metamorfosi III 24 Fotide entrò, tutta tremante d'emozione, nella stanza e tirò fuori dall'armadietto un barattolo. Io, avutolo tra le mani, me lo strinsi al cuore, lo baciai, lo pregai di concedermi un prospero volo. Poi in fretta e furia mi levai di dosso tutti i vestiti, vi intinsi avidamente la mano, e, presa una buona dose di quell'unguento, me ne spalmai tutta la persona. Cominciai allora a fare qualche prova di volo e, annaspando l'aria or con l'uno or con l'altro braccio, cercavo di sollevarmi a mo' di uccello. Ma piume non ne vedevo, di penne neanche l'ombra. Piuttosto i miei peli cominciarono a ispessirsi a mo' di setole, la mia pelle, quella mia pelle delicata, si indurisce come un cuoio, all'estremità delle mani le mie dita cominciano a non distinguersi più, ma s'attaccano tra loro e ne vien fuori un unico unghione; e dal basso della schiena si protende in fuo ri una coda grandiosa. Ed ecco la faccia mi si fa enorme, il muso mi si allunga, si spalancano tanto di narici, le labbra mi vengon giù penzoloni; nell'aria si levano smisurate orecchie irte di peli.

AGOSTINO Confessioni III 4 Erano questi i compagni di un'età ancora oscillante, che trascorsi studiando i libri d'arte oratoria: in cui aspiravo a emergere, col fine fatuo e deplorevole di godermi i fasti della vanità umana. E già, secondo il consueto ordine degli studi, mi era venuto in mano un libro di un certo Cicerone, la cui lingua è oggetto di universale ammirazione: cosa che non si può dire del suo spirito. Ma quel suo libro contiene un'esortazione alla filosofia: Ortensio, è intitolato. Ed è proprio quel libro che ha mutato il mio modo di sentire: ha con vogliato verso di te, mio signore, tutte le mie suppliche e mi ha fatto nascere altre ambizioni, altri progetti. Erano all'improvviso senza alcun valore, tutte quelle speranze della mia vanità: e nel mio cuore divampò un'incredibile passione per l'immortalità della sapienza. Cominciava il risveglio che mi avrebbe ricondotto a te. Quel libro io non lo usai per affinare il mio linguaggio, cioè per l'acquisto cui parevano destinati i soldi di mia madre: avevo diciott'anni, e mio padre era morto due anni prima. Non lo usai per affinare il mio linguaggio: perché era ciò che diceva ad avermi persuaso, e non come lo diceva. Che incendio, mio Dio, che incendio questo in cui mi struggevo di levarmi in volo per ritornare a te, via dalle cose terrene, e non sapevo cosa volevi far di me! Sta presso di te la Sapienza. Ma l'amore della sapienza ha il nome greco di filosofia, e per quel nome mi accendevo, leggendo. Si può sedurre, con la filosofia: c'è gente che usa il suo grande nome affascinante e nobile per imbellettare e mascherare i propri errori, e quasi tutti quelli di questa razza, contemporanei o precedenti all'autore, sono segnalati e bollati in quel li bro. Là si mostra salutare il consiglio donato dal tuo spirito per bocca del tuo buon servo devoto: Badate che nessuno vi inganni con la filosofia e la vana seduzione conforme alla tradizione umana, conforme agli elementi di que sto mondo e non conforme a Cristo, perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità. A quel tempo, lo sai, lume del mio cuore, ancora non conoscevo queste parole dell'Apostolo: ma in quell'esortazione bastava ad avvincermi l'invito, che il discorso mi faceva, ad amare non questa o quella setta ma la sapienza stessa, dovunque fosse: e a cercarla, conseguirla, possederla e stringerla a sé con forza. Quel discorso mi accendeva e mi faceva ardere, e in tanto fuoco una cosa sola mi raffreddava, che non vi comparisse il nome di Cristo, perché questo nome – secondo la tua bontà, Signore – questo nome del mio Salvatore, tuo figlio, il mio cuore ancora intatto l'aveva fiduciosamente succhiato col latte materno e lo conservava nel profondo. E senza questo nome qualunque opera, per quanto dotta e raffinata e veridica, non mi conquistava del tutto. Confessioni III 5 Perciò mi proposi di rivolgere la mia attenzione alle Sacre Scritture, per vedere come fossero. Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto di misteri. Io non ero capace di superare l'ingresso o piegare il collo ai suoi passi. Infatti i miei sentimenti, allorché le affrontai, non furono quali ora che parlo. Ebbi piuttosto l'impressione di un'opera indegna del paragone con la maestà tulliana. Il mio gonfio orgoglio aborriva la sua modestia, la mia vista non penetrava i suoi recessi. Quell'opera è fatta per crescere con i piccoli; ma io disdegnavo di farmi piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande.